Quelle otto pagine scritte a mano fanno ammattire ancora oggi gli studiosi di James Joyce. Sono sedici facciate di fogli in pergamena, scritte in bella calligrafia tra il 1912 e il 1914, del “Giacomo Joyce”. L’unica opera dell’autore irlandese, entrato nel Gotha della letteratura con capolavori come “Ulisse” e i “Dubliners”, ambientata a Trieste. Città dove lo scrittore sbarcò nel 1904 in fuga dall’odiata Dublino, rimediando subito un arresto per aver tentato di difendere dei marinai inglesi ubriachi presi di mira dai gendarmi austroungarici, e si fermò fino al 1920. Concedendosi solo tre intervalli che lo portarono a soggiornare brevemente a Pola, Roma e Zurigo. Un vero rompicapo, il poemtto ritrovato tra le carte inedite dal fratello Stanislaus, che venne pubblicato da Richard Ellmann appena nel 1968. Ovvero, 27 anni dopo la morte di uno dei grandi innovatori della letteratura del ‘900.
Ci hanno provato in tanti a risolvere l’enigma del “Giacomo Joyce”. Autori di grido e oscuri saggisti. Arrovellandosi attorno a un nome di donna. Alla figura seducente e sfuggente che si prende l’intero palcoscenico del poemetto fin dalla prima parola, visto che l’autore decise di iniziare il suo viaggio poetico-sentimental-erotico con quell’incipit folgorante e, al tempo stesso, frustrante per i lettori: “Who”, ovvero “Chi”. A cui fa seguito una descrizione del personaggio femminile in questione che fornisce indizi, ma al tempo stesso confonde le idee: “Un pallido volto circondato da una pelliccia dal forte odore. Le sue movenze sono timide e nervose. Lei usa l’occhialetto”.
Un rompicapo così resistente a tutti i tipi di interpretazioni non poteva sfuggire a Renzo S. Crivelli. Docente per lunghi anni all’Università di Trieste, studioso instancabile dell’opera di Joyce, ma anche grande estimatore delle avventure di Sherlock Holmes e dei romanzi, dei numerosi racconti polizieschi costruiti attorno a lui da Sir Arthur Conan Doyle, ha lavorato per lungo tempo a un appassionante, informatissimo saggio dal titolo “Un amore di Giacomo”, che esce adesso per la casa editrice Castelvecchi (pagg. 230, euro 22).
Ma perché tanto mistero per quest’operina che, al cospetto di “Ulisse”, dell’intraducibile, geniale “Finnegans Wake”, sembra poco più che il tormento in versi di un uomo abbagliato da una giovane, avvenente allieva? Crivelli lo spiega molto bene. Questo brevissimo, enigmatico poemetto racconta il mondo di Joyce più di una ponderosa biografia. Ovviamente per chi ha la pazienza di leggere il testo, pubblicato in appendice al saggio, contestualizzandolo poi nella ricostruzione dei lunghi anni trascorsi a Trieste dallo scrittore irlandese.
La domanda che tutti si sono posti, senza trovare una risposta convincente e definitiva, è: chi c’è dietro quel “chi”? Ovvero, quale, tra le tante giovani allieve della ricca borghesia triestina d’inizio ‘900, si innamorò perdutamente del trentenne insegnante di inglese dagli occhi azzurri, che sapeva parlare molto bene il dialetto triestino, frequentava con smodata ingordigia le bettole e i bordelli della città vecchia, scriveva lettere alla compagna Nora Barnacle talmente oscene da far arrossire il più moderno, spregiudicato pornografo del web. La risposta, come si può capire, è molto più complessa di quanto si potrebbe pensare. Perché, come spiega con grande chiarezza Crivelli, la fanciulla sedotta e amata da Giacomo Joyce, che nel poemetto si maschera dietro l’italianizzazione tutta triestina del suo nome e cognome (spesso storpiato in Zois), non è una sola. Ma una sorta di collage, un frankenstein letterario, che riporta in campo la prima allieva: quella Annie Schleimer che usava sempre i tacchi alti, amava le pellicce, alternava il triestino alla lingua tedesca, spesso celava la sua miopia dietro un paio di deliziosi occhialetti. E poi Amalia Popper, la più indiziata tra le possibili ragazze chiamate a fare da modello nel poemetto. E ancora, una tra le tre amiche Olivia Hannapel, Maria Luzzatto dal sorriso contagioso, la non bellissima, la cavallerizza Emma Cuzzi. Piccola, rotondetta, capelli tagliati a caschetto, molto vicina all’ideale erotico femminile dello scrittore.
Quello che affascina di più, nel saggio di Crivelli, non è tanto la caccia al nome di chi si cela dietro quel “Chi”. Ma il racconto di una Trieste perduta, dove si aggirava un James Joyce sempre a corto di quattrini, professore della Berlitz School per sbarcare il lunario, amico di Italo Svevo e della ricca borghesia grazie soprattutto a quel suo modo di insegnare l’inglese del tutto non convenzionale. Basato non sulla grammatica ma sul dialogo assai immediato, concreto. Capace di affascinare il mondo dorato delle ricche case triestine, le figlie più intelligenti e carine, le “jeunes filles en fleurs” di proustiana memoria, le eredi predilette dei conti, dei baroni, degli avvocati e degli imprenditori, portando fino a loro il brivido della trasgressione. Il lezzo delle bettole e dei bordelli. Un approccio privo di smancerie, birignao, false moine, basato sul canto di arie popolari intonate con bella voce da baritono, di corteggiamenti espliciti, di riferimenti letterari coltissimi.
Su tutto e su tutti giganteggia la figura di Nora Barnacle, la ragazza scappata dall’Irlanda per sottrarsi alla rigida morale cattolica insieme a Joyce. La mai-moglie, l’eterna amante, la donna tradita e traditrice, capace di ribattere colpo su colpo a James quando si lasciava andare, in certe lettere diventate ormai famose, a un delirio erotico. Dove c’era spazio per le fantasie più estreme. Per un feticismo conclamato, per un voyeurismo tenuto a bada a stento. Per la tentazione, più che concreta, di fare posto al libero amore. Di concretizzare un arditissimo ménage à trois con il giornalista de “Il Piccolo” Roberto Prezioso. Sfociato presto in un irrefrenabile delirio di gelosia.
Compagna per nulla angelicata, madre di due figli costretta a fare sempre i conti con la miseria, fondamentale nella vita e nell’immaginario letterario dello scrittore come una Beatrice dantesca capace di scendere dall’altare e rimanere luminosissima, pur sguazzando dentro il fango, Nora Barnacle rimane centro di gravità permanente. Incarnandosi in Molly Bloom, Anna Livia Plurabelle, nelle madonne/puttane che riempiono l’immaginario joyciano.
In fondo, e Crivelli lo dice molto bene, il fascino di “Giacomo Joyce” sta proprio lì. In quella straordinaria capacità, tutta joyciana, di trovare luminosissime occasioni poetiche dentro il tormento della carne. Trasformando la materia sporca, corrotta, in un poemetto che ancora oggi affascina e incanta. Per la forza alchemica che fa della scrittura uno strumento per trasformare la materia vile in oro. Perché in fondo, come diceva Joyce, “la giovinezza ha una fine: la fine è qui. Non accadrà mai. Tu lo sai bene. E allora? Scrivilo, dannato, scrivilo! Cos’altro sai fare?”.
<Alessandro Mezzena Lona