• 02/01/2018

Daša Drndić, la spazio sconfinato della vecchiaia

Daša Drndić, la spazio sconfinato della vecchiaia

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La vecchiaia è uno spazio immenso. E, come tutti i territori dai confini variabili, viene trascurata più che esplorata. Viene esorcizzata più che analizzata. A volte, però, qualche scrittore decide che è arrivato il momento di provare a raccontare quello che non è un pianeta disperso nell’oscurità dell’universo. Che non ha niente da spartire con certi mondi lontani, impossibili da esplorare. No perché, a guardarla da vicino, è soltanto la tappa finale del nostro percorso di vita. L’evoluzione naturale dell’adolescenza, della giovinezza, della maturità, a cui approderemo tutti.

Una scrittrice come Daša Drndić non poteva non sentirsi attratta da quello spazio sconfinato. Lei, la scrittrice nata a Zagabria, laureata all’Università di Belgrado, che vive da anni a Fiume, la docente universitaria che ha vissuto nell’Illinois, la donna che non si è mai sentita in sintonia con nessun dogma. L’autrice di quel capolavoro assoluto che in italiano è stato tradotto con il titolo “Trieste”, anche se l’originale sarebbe “Sonnenschein”. Dove ha trovato il coraggio di fare i conti con la memoria. Con il massacro degli ebrei, ma anche con le connivenze volontarie e involontarie che l’Europa ha concesso ai carnefici del Terzo Reich.

Infatti, il secondo libro di Daša Drndić tradotto in italiano (splendidamente) da Barbara Ivančić, gira proprio attorno al tema della vecchiaia. Si intitola “Il doppio”, lo pubblica la Oltre Edizioni (pagg. 183, euro 16) nella collana Oltre confine curata da Diego Zandel, e propone due racconti che in qualche modo sono legati tra loro. Perché entrambi provano a entrare dentro i confini sfuggenti di quella che viene definita terza età. Ma senza fare troppi complimenti, senza avanzare in punta di piedi temendo di ferire la sensibilità di qualcuno.

Insomma, lo sguardo di Daša Drndić sulla vecchiaia non è certo politically correct. Non si preoccupa di lisciare il pelo a chi si riempie la bocca del ruolo importantissimo degli anziani nella nostra società, per poi voltare loro le spalle quando si tratta di sporcarsi le mani. Ed è proprio da lì, dall’aspetto meno poetico, più reale e imbarazzante, che parte la scrittrice croata nel primo racconto “Artur e Isabella”. Con un folgorante “Oh. S’è cagato addosso”, che toglie ogni dubbio sulla volontà di guardare la realtà dritta negli occhi.

Infatti, i due protagonisti sono anziani che non vivono in una favoletta buona per uno spot pubblicitario. Di famiglia ebraica Isabella, ex ufficiale dell’Armata jugoslava Artur, si incontrano una notte proprio mentre il loro tempo sta per scadere. Entrambi sono tenuti sotto sorveglianza dal Potere (occhiuto, oppressivo e stupido come si rivela sotto tutti i regimi), che non si preoccupa tanto di fornire loro assistenza, ma piuttosto di spiare quelli che sono ancora due elementi capaci di creare turbativa. Prima di impiccarsi lei, di gettarsi dalla finestra lui, ormai incapaci di governare una quotidianità sempre più complicata, proveranno l’ultima gioia di incontrarsi una notte. Di conoscersi, parlare senza pensare troppo. E poi darsi reciproco godimento carnale. Anche se entrambi sono costretti a portare il pannolone. Anche se i loro corpi sono ormai tutto meno che seduttivi.

Eppure, scrive Daša Drndić, nessuno si è accorto che dentro quei corpi ormai in sfacelo vive un Doppelgänger. Un altro-da-sé che non si rende mai alla vecchiaia. E nemmeno alle regole dettate dal Potere. Un doppio, insomma, bizzarro, incontrollabile, mascherato sottro altre sembianze, che minaccia e chiama. Che grida forte: “Dai, unitevi a noi”. Perché la vita merita di essere consumata fino all’ultimo istante. Fregandosene di chi vorrebbe ingabbiarla dentro regole rigide dettate dalla religione, dalla politica, dal Verbo borghese del quieto vivere.

Più ampio e articolato, quasi quanto un romanzo breve, il secondo racconto “Pupi” mette in parallelo la vita inetta di Printz e quella disgraziata di due rinoceronti strappati alla sconfinata libertà della savana per essere rinchiusa in uno zoo. Condannati, così, alla curiosità di facce anonime che mai si chiedono quanto infinita sia la loro infelicità all’interno di un recinto. Curiosamente, la vita del protagonista finisce per assomigliare al claustrofobico destino dei due giganteschi mammiferi. Ma per lui, come per loro, esiste pur sempre una via di fuga. Un modo per ribellarsi al destino, alle convenzioni sociali, a un ruolo che spesso non si sceglie ma viene imposto.

Come in “Trieste”, Daša Drndić porta al centro del suo narrare la voglia di considerare la letteratura non una strumentale macchina consolatoria. Non una giostra pronta ad aprire il varco giusto pert evadere dalla quotidianità. No, perché la scrittrice di Fiume vuole che ogni pagina, ogni racconto o romanzo, facciano sanguinare ferite che solo in apparenza si sono rimarginate. Spingano chi preferisce vivere raccontando comode bugie a sbattere la faccia contro il muro della realtà. E così, libro dopo libro, rinnova la sua forte sintonia con scrittori che, nel ‘900, hanno saputo scegliere una via solitaria, accidentata, alla creatività: Thomas Bernhard, Danilo Kiš. Geniali irregolari le cui pagine non sono invecchiate. Anche perché, come l’autrice di Fiume, non hanno mai accettato di farsi mettere un guinzaglio. Uno dei tanti disponibili.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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