• 02/02/2018

Massimo Zamboni, trovare se stessi a Berlino (con il Muro)

Massimo Zamboni, trovare se stessi a Berlino (con il Muro)

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Non potevano far paura le canzoni dei Tangerine Dream. Non certo ai politici, ai custodi dell’ordine di Berlino Ovest. Perché la musica della band tedesca prevedeva solo lunghissime cavalcate sonore sulle note delle chitarre di Edgar Froese e del muro di tastiere dietro cui si nascondevano Christopher Franke e Johannes Schmölling. Sinfonie contemporanee senza parole. Quindi, nessun rischio di provocazione politica. Zero possibilità di ascoltare qualche testa calda delle sette note che dal palco si arrogava il diritto di arringare la folla. Di urlare quanto folle fosse aver diviso la Germania in due. Quanta vergogna si provava a vedere, al centro dell’Europa, il simbolo dell’impossibilità di creare un dialogo. Di superare gli steccati ideologici.

Eppure, quella sera lontana dei primissimi anni Ottanta, la musica dei Tangerine Dream riuscì a valicare il Muro. Passò accanto allo spettro del Reichstag, il simbolo dell’arroganza folle del nazismo ridotto a un patetico rudere, sorvolò gli elmetti dei Vopos, la Volkspolizei della Ddr che non esitava a sparare a vista contro chiunque provasse a valicare il limite tra le due Germanie. Raggiunse la gente che si era avvicinata ai reticolati nella zona dell’Est. E creò, di qua e di là del Muro, il senso dell’assurdità “di questi ascolti separati. La voglia di ricomposizione”. Ben prima che l’odiato simbolo della Guerra fredda finisse in pezzi. Lo racconta Massimo Zamboni, chitarrista, cantautore e scrittore, che per anni è stato una delle anime dei Cccp Fedeli alla Linea (quelli di “Emilia paranoica”, “Spara Jurij”, “Radio Kabul”, “Punk Islam”), e poi dei Csi – Consorzio Suonatori Indipendenti, geniali incarnazioni italiane del punk, nel suo libro “Nessuna voce dentro. Un’estate a Berlino Ovest” pubblicato l’anno scorso da Einaudi (pagg. 199, euro 17).

Scritto partendo da una rielaborazione de “Il mio primo dopoguerra”, il libro è molto più di un diario di viaggio. Fin dalla dedica, “Ai giovani pensosi circondati dagli occhiali”, lascia capire che tra le pagine il lettore troverà il sogno e la realtà, il viaggio iniziatico e la discesa nell’abisso della vita, le elettrizzanti scoperte e le cocenti disillusioni di un ragazzo di 24 anni. Uno come Massimo Zamboni, partito da Reggio Emilia in autostop dopo aver lasciato perdere gli studi di Medicina. Uno che nelle tasche aveva pochi soldi e la convinzione di poter trovare le porte del cosmo a Berlino Ovest. Che era pronto a vivere nelle case occupate, a guadagnarsi le giornate in una fetida pizzeria gestita da uno strampalato italiano. E che lì avrebbe cercato il senso di un futuro tutto da immaginare.

A leggere il racconto di Zamboni, dopo quasi trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, si ritrova quel clima elettrico, quel brulicare di giovani pronti ad aggrapparsi all’imperativo “Tuwat”, fa’ qualcosa. La stessa voglia di cambiare la musica seguendo i suoni urticanti e danzabili degli Einstürzende Neubauten, dei Daf, dei Fehlfarben che in “Militürk” urlavano “Alles ist vorbei”, sorta di controcanto al “No future” dei Sex Pisols. Perché vista da Berlino divisa, la storia poteva avere per finale solo uno slogan come “tutto è finito”. Dal momento che, nella Germania democratica arresa ai folli diktat del capitalismo, “Wir sind die Türken von Morgen”: come dire, che i giovani, tedeschi e non, si sentivano i Turchi del futuro. Emarginati, disprezzati, vessati, sfruttati, derisi.

Ma Berlino aveva, nelle vene, un’adrenalina pazzesca. Quella che poteva spingere un ragazzo timido come Massimo Zamboni a farsi trascinare per strada dalla sua amica Nati. Per suonare, con chitarra e tamburello a cerchi, “The harder they come” di Jimmy Cliff, oppure qualche blues basilare come “Open dat book”. Senza riscuotere la minima attenzione dai passanti, e senza riuscxire a guadagnare un pugno di monetine. Ma era difficile scoraggiarsi in un luogo che sembrava non dormire mai, dove davvero ognuno poteva trovare la propria nicchia. Dalla ragazza simbolo dei tossici Christiane F., che “batteva” nella zona dello Zoo per guadagnarsi la dose quotidiana di eroina, a chi confondeva il poeta e cantautore Wolf Biermann per un dissidente anticomunista. Dimenticando che a lui era stato impedito di rientrare nella Ddr proprio perché accusava Erich Honecker, e la sua banda di burocrati servi dell’Unione Sovietica, di avere tradito la rivoluzione: “Ora canto per tutti i miei compagni la canzone della tradita rivoluzione, per i miei compagni traditi canto e canto per i miei compagni traditori”.

Alla stazione di Yorckstraße, dove Zamboni era approdato del tutto sprovveduto nel 1981, un cartello diceva “Zum Umsteigen”. Sembrava indicargli, insomma, la via del cambiamento che lo avrebbe aspettato a Berlino. Molti mesi dopo, una sera, quando ormai il lavoro nella pizzeria da Salvo era sfumato, lui si era deciso a bruciare la notte al Superfly, “ricovero coatto ed economico di un materiale umano che si posiziona tra il rock e il punk”. E mentre si ostinava a ballare tutto solo “Alabama song” dei Doors, ben conscio di dover ammettere “che di tutta questa Berlino, di tutte le voglie emesse e assorbite non riuscirò a portare a casa ancora una volta niente che non sia confuso o riguardi solo me”, succede qualcosa. La pista si svuota, da dietro lo abbracciano. Riconosce Patti, una ragazza di Reggio Emilia che è in vacanza lì. Vuole presentargli un amico. Un tale che ha la febbre, che tra poche ore lascerà la Germania e partirà per la Tunisia.

Un corto circuito, pochi istanti per cambiare il corso delle cose. “Non mi interessa proprio, uno di Reggio – smettila, dai, vieni con me – ma va’, lasciami ballare”. Massimo Zamboni ha pochi secondi per decidere: sceglie di seguire Patti fuori dalla pista da ballo. Due mani destre si incrociano. Lui è Giovanni Lindo Ferretti, un ex di Lotta Continua, uno che ha lavorato nei servizi psichiatrici. Si riconoscono, subito. La sintonia è immediata, non mediata, non meditata. Da lì nascerà uno dei progetti più interessanti e importanti della musica italiana di fine millennio: i Cccp. Geniali folletti del punk, che hanno saputo iniettare nella provincia italiana il seme folle e vivissimo della provocazione, della creatività sempre libera, provocatoria, immaginifica. Di un racconto della realtà privo di catene, di filtri, di steccati. Di muri.

Come quello di Berlino. Il presidente americano John Fitzgerald Kennedy disse che il Muro era la “manifestazione più abominevole e più forte del fallimento del sistema comunista”. Zamboni lo corregge, scrivendo che era “la manifestazione più concreta ed eterna del fallimento non di un regime, ma dell’esperienza umana tout court”.

Di questa e altre storie, della “Berlino, luogo dell’ideale”, Massimo Zamboni (che ha pubblicato con Einaudi “L’eco di uno sparo” e con La nave di Teseo “Anime galleggianti. Dalla pianura al mare tagliando per i campi”, scritto a quattro mani con Vasco Brondi – Le Luci della Centrale Elettrica) parlerà sabato 3 febbraio nella Sala “Teresina Degan” della Biblioteca Civica di Pordenone, in piazza XX Settembre, invitato a inaugurare l’edizione 2018 della rassegna Il dialogo creativo.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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