Il suo silenzio, sotto la croce, lascia senza parole. Perché non si può assistere alla morte atroce, infamante, ingiusta di un figlio senza un lamento, senza un grido di rabbia o di dolore. Eppure, i quattro evangelisti non hanno attribuito una parola, una sola, a quella madre impietrita davanti al corpo straziato e agonizzante di Gesù. Del giovane uomo considerato un santo, un profeta, un mistificatore. Il figlio di Dio. Così, ci hanno provato i poeti, quelli dotati di una fede smisurata, a spiegare la fragorosa assenza di parole di Maria. Dicendo che la Madonna è luce, e la luce non parla.
Eppure in altre occasioni, anche importanti, Maria si era espressa in maniera chiara e decisa. Visto che i quattro evangelisti le attribuiscono parole precise al momento dell’annunciazione, quando va in visita dalla cugina Elisabetta, quando il giovane Gesù viene ritrovato tra i dottori del tempio, e poi ancora alle nozze di Cana. Nel momento in cui quello che qualcuno riconoscerà come il Messia decide di moltiplicare i pani e i pesci disponibili perché tutti gli invitati abbiano da mangiare.
Ma perché la madre del Cristo rimane chiusa nel suo silenzio proprio quando il figlio va a morire sulla croce? Abbandonato dai suoi discepoli fedeli, rinnegato da quelli più vicini a lui. Tormentato dal dubbio che perfino il suo padre ultraterreno lo abbia lasciato solo nel momento più drammatico di una brevissima, intensa esistenza.
Se lo è chiesto una donna, una scrittrice che ha lavorato anche per il cinema: Mariantonia Avati. Una figlia d’arte, visto che suo padre è il grande regista Pupi (nonché autore di due ottimi romanzi come “Il ragazzo in soffitta” e “Il signor diavolo”). Una mamma, che ha conosciuto il dolore di perdere un figlio 14 giorni dopo la nascita. E che, per il suo romanzo d’esordio, ha voluto affrontare proprio quei dubbi, quelle domande sulla presenza evanescente di Maria sul Golgota. È nato così “Il silenzio del sabato”, pubblicato da La nave di Teseo (pagg. 194, euro 17) che affronta, con grande intuizione e felicità narrativa e altrettanta, delicata, seppure liberissima sensibilità, le ore trascorse dalla madre di Gesù dal momento della sua morte in croce a quello del suo annunciato ritorno dal mondo delle ombre.
Nella sua vita, la Maria che Mariantonia Avati reinventa, pur rispettando il racconto delle fonti ufficiali, ha saputo accettare la sfida di diventare madre senza “conoscere uomo”. E, al tempo stesso, ha voluto ribellarsi al ruolo defilato, subalterno, che la religione, la cultura ebraica assegnava alle donne. C’è una scena bellissima in cui la futura mamma di Gesù, ancora bambina, sfida alcuni maschi a una corsa senza respiro per vedere chi è più forte, il più veloce. E quando raggiunge per prima l’albero di fico indicato come traguardo non si ferma più. Perché, quel rompere schemi apparentemente invalicabili, in realtà, per lei significa andare in cerca di se stessa. Provare a capire che cosa le riserva il futuro
E il futuro ha in serbo per Maria un compito complicato e splendido. Quello di mettere al mondo un Giusto. Quello di sparire dalla sua vita, di guardarlo da lontano, di accettare che sia tutto per gli altri, per chi soffre, per chi non crede più in niente. Per ritrovarlo, dopo tanti anni, condannato a morte. Inchiodato sulla croce in mezzo a due volgari ladroni. Perseguitato dai sacerdoti del Sinedrio, dal potere dell’invasore romano, per esorcizzare le sue parole capaci di sovvertire un ordine costituito che legalizza la schiavitù, difende i ricchi e affossa i poveri, abbandona gli ammalati. E confina le donne al ruolo di incubatrici di nuove vite, di tuttofare per il buon governo della casa. Di oggetti muti, sempre disponibili a ogni desiderio, impossibilitate a capire l’importanza del proprio essere.
Ma Maria no, non è capace di chinare il capo. E davanti alla morte del figlio, davanti all’inumano calvario del Giusto, deve fare forza su se stessa per non cedere alle lusinghe di una voce suadente che le accarezza la pelle e i capelli. Che le sussurra i dubbi, che la culla nell’incertezza. Che la invita a pensare quanto folle e impossibile sia il desiderio che un Gesù umiliato dai suoi simili possa vincere la morte. Tornare dall’aldilà. No, Maria ha il compito di far capire anche a chi ha creduto in lui per pochi giorni, ma già è pronto a riallinearsi alle farisaiche leggi della religione ebraica, che lui era davvero il Salvatore. Venuto a spirare sulla croce per portare un verbo d’amore, giustizia, umanità e libertà.
Quaranta ore trascorrono dalla morte del Giusto al momento in cui verrà annunciata la sua resurrezione. Eppure Maria, per ritrovare il senso profondo del sacrificio di suo figlio, per convincersi che non è tutta un’illusione, dovrà attraversare il deserto della solitudine, del dolore, della rabbia, dell’amarezza. E vincere un terribile senso di vuoto davanti al mistero, all’inconoscibile, al razionalmente impossibile. Perché se Lazzaro è tornato indietro dalla morte grazie a Gesù, adesso è solo un non morto che non sa più che farsene della vita. E allora, com’è possibile che lui, proprio lui, il figlio di quella ragazza che ha sfidato lo scherno di tutti partorendo un bambino voluto da Dio in persona, sappia scardinare le regole della Natura? Annullando il confine tra l’essere e il non essere. Dimostrando che non c’è separazione tra la luce e le tenebre. Tra l’ignoto e il qui-e-ora.
Tessendo la sua trama con parole precise, luminose, “alte”, lasciando che, per una volta, siano le donne a riprendersi il palcoscenico della Storia (splendida e commovente l’idea di affiancare a una Maria travolta dal dolore, e dal dubbio che il messaggio di suo figlio non sia servito a cambiare i timorosi discepoli, un angelo camuffato da ragazzina “impura” e straniera, che viene relegata nella stalla a mangiare e dormire con gli animali), mettendo un po’ da parte l’arido esercizio della teologia per lasciare che siano le emozioni più sconvolgenti e belle a occupare il primo piano della storia, Mariantonia Avati fa del suo “Silenzio del sabato” un potente viaggio narrativo alle origini della spiritualità autentica. Non quella canonizzata in riti ormai privi di significato, faraoniche cerimonie e squallidi giochetti di potere che tengono prigioniere la Chiesa e le chiese. Ma quella di un giovane uomo morto credendo che ci fosse una possibilità di salvezza per gli uomini. E di una madre capace di amarlo fino ad accettare l’impossibile. A credere che, nonostante l’atroce agonia sulla croce, un giorno lo abbraccerà di nuovo.
Maria è pronta a credere per amore. Anche se suo figlio non dovesse risorgere, ogni volta che penserà a lui sentirà fiorire sulle labbra un sorriso nuovo. Perché, in fondo, non c’è più confine tra la vita e la morte se il ricordo delle persone che sono dentro il nostro cuore cammina insieme a noi. Accanto a noi. A quel punto, non conta più ciò che Maddalena viene a dirle nella casa di Rachele e Nicodemo. Infatti, Mariantonia Avati si ferma lì. Al sorriso della madre. Al suo accogliere una “speranza diventata realtà” senza provare la vergogna di mostrare la felicità. Finalmente donna libera di infrangere i pregiudizi. Figlia del suo figlio. Segno di contraddizione che accetta il suo destino.
<Alessandro Mezzena Lona