• 18/08/2019

Roberta Scorranese, raccontare il passato per ritrovare se stessi

Roberta Scorranese, raccontare il passato per ritrovare se stessi

Roberta Scorranese, raccontare il passato per ritrovare se stessi 1024 682 alemezlo
Ci sono ricordi che hanno bisogno del tempo giusto. Perché sono troppo belli, troppo forti da raccontare. Perché assomigliano all’impasto perfetto che serve a scrivere un buon romanzo. Perché, soprattutto, spalancano ferite che hanno fatto una grande fatica a rimarginarsi. E spingono a confrontarsi con il passato. Un passato pieno di imbarazzi e pregiudizi, di frasi sussurrate e segreti rivelati soltanto a mezza voce. Un passato che, spesso, ha creato barriere insormontabili tra padri e figli, tra zii e nipoti, tra fratelli e cugini.

Poi capita che la persona che più ti ama ripeta spesso: “Portami dove sei nata”. E, allora, il tempo giusto dei ricordi si compie. Arriva a maturazione. E le storie del passato possono lasciar scorrere nel racconto tutta la loro bellezza, tutta la loro forza e drammaticità. Convinte che, se le ferite si riapriranno, questa volta potranno richiudersi per sempre. Risanarsi in maniera definitiva. Perché chi non fa i conti con gli imbarazzi, i pregiudizi, le frase sussurrate e i segreti rivelati soltanto a mezza voce, non può dire di avere ritrovato pienamente se stesso. Dal momento che il suo io, il suo essere, è fatto in gran parte di quelle storie.

Roberta Scorranese si è sentita chiedere più volte, dal suo compagno Maurizio, “Portami dove sei nata”. Ma per evocare i ricordi, per guardare in faccia i fantasmi del passato senza indietreggiare, la giornalista del “Corriere della Sera”, aveva bisogno di riascoltare le voci. Di far parlare i luoghi del suo Abruzzo. Di ricordare lentamente i volti di Valle San Giovanni, in provincia di Teramo, i nomi delle persone, l’odore delle cose vive e di quelle che non ci sono più. Lasciarsi andare, insomma, al richiamo della memoria per ritrovare il proprio posto delle fragole. Per mescolare la tenerezza al dolore della vita vissuta. Per sorridere con la felicità dei momenti belli e lasciare che scorrano le lacrime rievocando le tante ore di malinconia, di disperazione.

Al posto delle madeleine, i dolcetti tipici del Nordest della Francia, che hanno fornito a Marcel Proust lo spunto per lasciarsi andare al flusso dei ricordi nella sua “Ricerca del tempo perduto”, Roberta Scorranese, che al “Corriere” scrive da anni di temi culturali e di attualità, ha lasciato che fosse il dolore ad accendere la fiamma del ricordo. E quando è ritornata con la memoria alla notte tra il 12 e il 13 febbraio del 2007, quando prima suo fratello, e poi sua madre, le comunicarono che papà era morto, si è accorta che era arrivato il momento di ritornare a casa. Non solo in senso reale, per le ore della tristezza e del rimpianto, per il rito del funerale, ma anche seguendo la forza di immagini un po’ sbiadite, ma ben presenti, al confine tra la memoria e l’immaginazione. Per riallacciare i fili di un passato rimasto a lungo in un angolino dentro di lei. Per seguire il richiamo dei fantasmi che da quella notte “hanno cominciato a popolare – scrive l’autrice di ‘Portami dove sei nata’ – la dimensione invisibile che sta tra la vita reale e la vita che ogni giorno riscriviamo per renderla sopportabile”.

Ha preso forma, così, un viaggio necessario e bellissimo. Un racconto fatto di ricordi precisi e storie opportunamente reinventate, per proteggere e rispettare la sfera privata di alcuni personaggi ricreati nelle pagine di “Portami dove sei nata” (Bompiani, pagg. 202, euro 16). Un ritratto corale di un grande clan familiare, gli Scorranese, immerso nella campagna dell’Abruzzo con i suoi riti e i lunghi silenzi degli uomini, con l’intraprendenza delle donne e il richiamo di una religiosità dove paganesimo e cristianesimo sembravano poter convivere senza darsi troppo fastidio.

Un piccolo mondo antico su cui gravava il peso di un “peccato grande”. “Lu peccat’ gross’ gross’, pover’ammé”, come dicevano le comari di casa: quello compiuto da nonno Gino, che aveva messo incinta la splendida Celestina, ma aveva poi sposato Chiarina. Pur senza mai abbandonare economicamente la donna e suo figlio Peppino.

Nella perfetta macchina per resurrezioni che è “Portami dove sei nata”, scritto da Roberta Scorranese in un italiano colto e musicale, che fa spazio, dentro di sé, alle espressioni più colorite ed efficaci della parlata abruzzese (con l’intercalare  efficacissimo”Diochemisenti”), sfila sotto gli occhi del lettore una galleria di ritratti, storie, personaggi che fanno di questo libro un piccolo grande romanzo di memorie.  Pieno di umanità e delicato humour, drammaticità e leggerezza.

Racconti, quelli di “Portami dove sei nata”, che parlano di una gigantesca bomba costruita in segreto di Zi ‘Ntonio, dell’ammidia che colpisce il vitello di Cesarino mentre lo stanno portando al mercato per essere venduto, dei serpenti pagati profumatamente dal parroco a chi li cattura per addobbare la statua di san Domenico durante la processione. E, ancora, della sorte difficile toccata a Celestina e al suo bambino sbagliato, colpevoli solo di avere amato un uomo che non poteva fare famiglia con loro. E, poi, il ritrovarsi di Peppino ormai adulto con quel suo fratello mai visto, mai frequentato, che era il papà di Roberta Scorranese.

Attorno alla famiglia Scorranese sfila la storia del ‘900. Ma i soldati tedeschi, il tuonare dei cannoni in lontananza, i partigiani feriti e braccati che appaiono e scompaiono, l’ombra inquietante del terremoto che scompiglia l’Abruzzo come fosse cosa sua, sono solo comprimari di una storia di famiglia pennellata con grazia e delicatezza, con grande forza narrativa, da una scrittrice che non è solo terminale di una magmatica massa di storie e ricordi da riordinare. No, perché Roberta Scorranese sa fare di questo ritratto così intimo e umano un viatico per affrontare la vita, dialogando con se stessa attraverso le voci di chi è stato qui prima di lei. E continua a vivere dentro di lei. Nelle brutte gonne di Celestina, nei fazzoletti immacolati di nonna Chiarina, nelle forbici della sartora che si improvvisa ostetrica del paese. In un brulicare di destini. Incrociati al suo, per sempre.

<Alessandro Mezzena Lona<

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