• 15/03/2020

Zadie Smith, lo sguardo estraneo nei racconti di “Grand Union”

Zadie Smith, lo sguardo estraneo nei racconti di “Grand Union”

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Per lei, scrivere è come partecipare a una jazz session. Infatti, Zadie Smith non potrà mai essere incasellata tra gli scrittori che sfornano libri a comando. Catapultata al successo quando aveva 23 anni, sul finire degli anni ’90, dal romanzo “Denti bianchi”, da allora l’autrice figlia di un uomo inglese e di una donna una giamaicana, ha tracciato una sua personalissima via alla letteratura. Che si allontana di corsa da quella sensazione claustrofobica provata, quand’era una ragazzina, mentre doveva eseguire alla perfezione gli spartiti di musica classica che le venivano imposti.

Sarebbe facile dire che Zadie Smith scrive in equilibrio stabilissimo tra due mondi. Quello ereditato dal padre, bianco, anglosassone, e quello che la madre le ha passato nel Dna, meticcio, vitalissimo. E forse vivere nel Greenwich Village, vero e proprio “luogo a parte” di New York, l’ha portata ad amplificare, a perfezionare questa sua voglia di trasformare ogni testo che scrive in un’esperienza unica. Diversa da quella precedente. Anche per chi non conosce il suo fortunatissimo “Denti bianchi”, oppure gli altri suoi libri, da “L’uomo autografo” alla “Ambasciata di Cambogia”, da “N-W” a “Swing time”, basterà immergersi tra le pagine della nuova raccolta di racconti, per rendersene conto. Si intitola “Grand Union”, l’ha tradotta Silvia Pareschi per Mondadori (pagg. 237, euro 19,50). Raccoglie diciannove storie brevi che, in parte, sono state pubblicate per la prima volta da riviste prestigiose come “The New Yorker”, “The Paris Review”, “Granta”.

Storie che portano il lettore a confrontarsi, senza troppi giri di parole, con la realtà del qui-e-ora. Per esempio seguendo i pensieri contraddittori della protagonista de “La dialettica”, il racconto che apre “Grand Union”: una donna che “vorrebbe essere in buoni rapporto con tutti gli animali”, pur continuando a mangiare carne. Senza nascondersi che “i pulcini, a centinaia di migliaia, forse milioni, passano su una catena di montaggio, ogni giorno della settimana, e i sessatori li capovolgono e buttano i maschi dentro enormi tritacarne dove vengono macinati vivi”. Ma Zadie Smith si diverte anche a smascherare la risibile schiavitù che lega l’uomo contemporaneo all’effimero, quando in “Individuare l’Io” pone delle domande esilaranti e raggelanti al tempo stesso: “Sei nella tua borsa di tela? Nelle piante? Nel distributore di bibite al gusto di malafede (lacrime palestinesi) ? Nel tuo tappeto? Negli sforzi sommari della città per riciclare la spazzatura? Nei tuoi figli? Nella tua decisione di non avere figli? Nella tua tribù? Nella tua devianza sessuale? Nel tuo luogo di lavoro? Nella tua busta paga? Nei like? Nei rifiuti? Nella tua documentazione? In questa frase?”.

La realtà, spesso, irrompe nei racconti di Zadie Smith con tutta la capacità narrativa del saper inquadrare con corrosiva e implacabile precisione, ma anche con malinconica partecipazione, lo sfasciarsi di una coppia in “Settimana intensa” (“Non ci siamo mai urlati dietro in trent’anni di matrimonio”), mentre tutto attorno il mondo sta impazzendo. Ma anche con la voglia feroce di denunciare i pericoli della demonizzazione dell’altro, che nessuno vuole più chiamare razzismo, in “Kelso decostruito”. Senza dimenticare che spesso, dietro una falsissima predisposizione alla tolleranza, al perbenismo, si nascondono gli aspetto più tenebrosi della nostra società. “Ora più che mai”, ad esempio, parte da un incipit al vetriolo: “C’è una smania di essere buoni. Di essere visti come buoni. Di essere visti. Anche di essere. La cattiveria, l’invisibilità, le cose come sono in realtà invece delle cose come sembrano, la morte stessa – tutta roba fuori moda”.

Dotata di una scrittura mutevole, che è capace di adattarsi ai diversi contesti narrativi, ora colloquiale e a tratti destrutturata, visionaria e, al tempo stesso, registrata con una precisione millimetrica, Zadie Smith non smette mai di divertirsi, quando scrive. Perché l’inventare storie le permette di immaginare, ragionare, denunciare, polemizzare, viaggiare liberissima nel territorio della fantasia. “Ora più che mai”, come dice il titolo del penultimo racconto di “Grand Union”, il narratore ha il compito di esercitare il suo sguardo lucido. Di non farsi imbrigliare.

Ogni autore che non scriva soltanto per corteggiare il mercato, dice Zadie Smith, “deve sentirsi estraneo ovunque si trovi”. Perché è quella la prospettiva più interessante da cui osservare il mondo. Ogni sfumatura, ogni dettaglio, verrà messo bene a fuoco, se ci si sforza di guardarlo intensamente. Con sguardo limpido. E libero.

<Alessandro Mezzena Lona<

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