• 15/06/2020

Joyce Carol Oates, riflessi inquieti di una tenebrosa America

Joyce Carol Oates, riflessi inquieti di una tenebrosa America

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Sarebbe facile, fin troppo facile. Liquidare “Ho fatto la spia”, il romanzo di Joyce Carol Oates, come una storia di denuncia del razzismo mai sopito negli Stati Uniti d’America. Farebbe comodo, dopo la morte di George Floyd, l’ennesimo afroamericano ammazzato da un poliziotto. Dopo l’ondata di sdegno che ha attraversato il mondo intero. Dopo lo sgomento provato, o meglio riprovato, nello scoprire che molti custodi della legge si ritengono autorizzati ad andare al di là della legge stessa. E perdono quel minimo di empatia, di rispetto per altri esseri umani che, forse, si sono macchiati di qualche reato, tutto da dimostrare. Ma che non possono essere considerarti carne da macellare in mezzo a una strada.

Sarebbe facile prendere il romanzo di Joyce Carol Oates e trasformarlo in un manifesto. In un potente atto d’accusa contro una democrazia, come quella americana, che ha sempre fatto fatica a liberarsi da uno strisciante, sempre pronto a riemergere, razzismo nei confronti di tutti coloro che non sono rigidamente bianchi e, possibilmente, aggrappati a qualche variante del cristianesimo. Invece, “Ho fatto la spia”, tradotto da Carlo Prosperi per La nave di Teseo (pagg. 490, euro 20) è molto più di una storia pronta da dare in pasto a tutti quelli che si indignano in fretta. E dimenticano ancora più rapidamente.

Già il titolo originale, “My life as a rat”, la mia vita da topo, racchiude in sé il vero senso del romanzo. Perché Joyce Carol Oates, la scrittrice di Lockport riconosciuta come una delle grandi voci della letteratura americana contemporanea, da anni in corsa per il Premio Nobel, fa ruotare attorno al problema del razzismo, dell’intolleranza nei confronti della gente di pelle scura, la discesa all’inferno di una ragazzina. L’emarginazione, la ferocia esercitata prima dalla famiglia, e poi dall’intera società, nei confronti di un soggetto debole. Che finirà per condurre una vita disperata, come quella dei ratti di fogna.

Violet Rue ha 12 anni quando, una notte, intuisce che i suoi due fratelli più grandi devono aver combinato qualcosa di molto grave. Lei è la più giovane di una numerosa famiglia proletaria di origine irlandese ,che ha piantato radici nell’America profonda, a South Niagara. In quella tranquilla cittadina dello Stato di New York suo padre, e i parenti che portano il cognome Kerrigan, sono riusciti a conquistare un certo rispetto. Non soltanto perché uno dei loro cugini è entrato in politica, difendendo con arroganza i diritti della popolazione bianca e dei faccendieri più danarosi. Ma soprattutto perché il capofamiglia, l’irascibile Jerome, ha sempre governato la famiglia con mano ferma. Con una durezza che non conosce momenti di ripensamento, complicata dalle frequenti bevute portate al limite estremo. Fino a rientrare, la serra, barcollando. “Mettere in riga i figli. Semplicemente quello che fa un bravo genitore responsabile per amore” è la sua stringata, inesorabile legge.

Ma non sempre gestire la famiglia con il pugno di ferro tiene al riparo i figli dai guai. Una notte, i due figli più grandi, insieme a un paio di altri ragazzi, dopo aver bevuto più del solito investono un loro compagno di scuola afroamericano, che procede su una strada di South Niagara in bicicletta. E se non bastasse, massacrano di botte Hadrian Johnson, che tutti conoscono come un campione della squadra di basket, menando fendenti con una mazza da baseball. Quando ritrovano un lampo di lucidità, Jerome Jr. e Lionel corrono a rifugiarsi a casa dei genitori. E nascondono l’arma del delitto sotto un abbondante strato di terra.

Ma la sorellina più amata, Violet Rue, assiste al rientro dei fratelli, alle loro concitate discussioni, all’operazione di seppellimento della mazza. E anche se giura di non rivelare mai niente, men che meno al padre, una mattina a scuola confessa il terribile segreto a un’ infermiera che le misura la febbre. Immediati scattano i controlli della polizia. E quando viene ritrovata l’arma del delitto, per i due fratelli Kerrigan le cose si complicano maledettamente. C’è una testimone che li accusa del delitto. È la giovane sorella. Così il tribunale decide di toglierla dalla sua famiglia. La affida agli zii, la allontana dal possibile pericolo di subire pressioni per cambiare i proprio ricordi. O, ancora peggio, di andare incontro all’ira violenta dei due fratelli assassini.

Ma non è solo il tribunale a scavare un fossato tra Violet Rue e la famiglia. Perché i Kerrigan fanno quadrato attorno a Jerome Jr e Lionel. Provano a scagionarli in tutti i modi, dando credito alla voce che sia stato ordito un complotto ai danni della popolazione bianca di South Niagara. Agitano lo spettro della persecuzione, del facile vittimismo degli afroamericani. E quando la corte decide di condannarli a parecchi anni di carcere, attorno alla ragazzina scende una cortina di diffidenza e di silenzio. Sua madre non le parla più, suo padre non vuole nemmeno sentirla nominare. Soltanto le sorelle tengono qualche flebile contatto, ben attente che i genitori non se ne accorgano.

Per la famiglia non esiste più. Sarà condannata a condurre una vita da topo di fogna.

Comincia, così, per Violet Rue un’esistenza fatta di solitudine e non amore. Di complessi di colpa e devastanti insicurezze. Trascorre interminabili giornate  in attesa di un segnale di riavvicinamento dalla sua famiglia, visto che nessuno sembra disposto a regalarle un po’ d’amicizia, d’affetto. E come tutti gli indesiderati, i banditi dalla società, i soggetti non graditi, va incontro a una sere di esperienze sgradevoli, shockanti, che fanno finire in fretta la sua adolescenza.  Non riesce a legare con i compagni di scuola. Finirà vittima delle attenzioni di un professore di matematica, pedofilo e nostalgico del nazismo. E anche quando arriverà il momento di innamorarsi, verrà circuita da un uomo violento, instabile. Un classico maschio di successo convinto che ogni cosa abbia un prezzo. E che una donna possa essere disposta a subire ogni tipo di angheria, pur di essere ricoperta di denaro e regali.

In tutta la sua carriera di scrittrice, in cui ha regalato ai lettori capolavori come “Blonde”, la quadrilogia “Epopea americana”, lo straordinario memoir “Storia di una vedova” e altre decine di libri, Joyce Carol Oates non ha mai smesso di raccontare il lato oscuro degli States. Scorgendo dietro il sorriso troppo scintillante e perfetto dell’America, dietro l’apparente ottimismo di una nazione perseguitata dall’ossessione del Potere e del dominio, dietro l’illusione che sarebbero bastati i sogni di Abramo Lincoln e una sanguinosa guerra civile a spazzare via il cancro del razzismo, un’irresistibile attrazione per la violenza, l’emarginazione dei più deboli, la feroce discriminazione delle donne, il proliferare di credo religiosi dediti al più spinto fanatismo.

Con “Ho fatto la spia”, Joyce Carol Oates ha saputo dare voce alle inquietudini del nostro tempo. A un presente che non riesce a liberarsi dei fantasmi del passato. Che invoca Dio e nega tutto quello che c’è di più nobile nel credere a una presenza trascendente. Che fa della violenza quotidiana, capillare, sistematica, un sistema di governo della realtà. Questo romanzo, capace di tenere inchiodato il lettore alla sua storia con la forza della grande letteratura, diventa, pagina dopo pagina, lo specchio impietoso in cui l’America, il mondo, hanno paura di trovarsi riflessi.

Perché l’immagine che quello specchio restituisce fa accapponare la pelle. A tutte le persone che ancora possiedono un briciolo di umanità.

<Alessandro Mezzena Lona<

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