Immaginare una vita, per chi scrive, dovrebbe essere facile. Perché non è necessario seguire dei canoni di verità. Ogni azione, ogni pensiero, ogni parola attribuiti a un personaggio di fantasia sono credibili, purché corrispondano al ritratto che il suo creatore ha tracciato di quella figura fantastica. E non vadano a contraddire quello che è stato raccontato poche righe, o poche pagine, prima. Ma immergere le mani nella vita reale, per provare a trarre dal regno delle ombre il ricordo vivido di chi non c’è più, è altrettanto semplice? O richiede, piuttosto, un necessario allontanamento, una capacità di liberarsi dalle emozioni troppo forti, dalle suggestioni e dalla memoria imprecisa?
Emanuele Trevi si è posto spesso questa domanda, soprattutto negli ultimi anni. Almeno d quando lui, che oltre a scrivere romanzi come “I cani del nulla”, “Il libro della gioia perpetua” e approfonditi saggi sulla letteratura, ha iniziato a dare forma a una serie di libri che qualcuno continua considerare narrativa. Ma che assomigliano piuttostoi come ha detto lo stesso autore romano, a un crossover tra il saggio letterario e la seduta spiritica. Basterebbe pensare a “Qualcosa di scritto”, arrivato a due soli voti dalla vittoria del Premio Strega nel 2012, dove dalle carte e dai ricordi del Fondo Pier Paolo Pasolini riprendeva forma la figura dello scrittore e regista ammazzato il 2 novembre del 1975 all’Idroscalo di Ostia. Passando anche attraverso le parole della bisbetica vestale di quel luogo: l’attrice Laura Betti.
Ma è Giusto ricordare anche quel gioiello che è “Sogni e favole”, dove Emanuele Trevi intreccia le vite del fotografo statunitense, trapiantato a Roma, Arturo Patten e di Pietro Metastasio, che grazie ai versi del sonetto “Sogni, e favole io fingo” gli permette di attraversare tanta letteratura, fino ad arrivare alla poetessa Amelia Rosselli e al critico letterario Cesare Garboli.
Eppure, in “Due vite”, pubblicato da Neri Pozza (pagg. 131, euro 12,50), Emanuele Trevi prova ad allontanarsi ancor di più dai suoi precedenti libri strani. Da quei quasi-romanzi sospesi tra la ricerca letteraria e l’evocazione di autori e artisti a cui lo legano indubbie affinità elettive. Perché questa volta lo scrittore romano vuole dare forma al racconto del passaggio terreno, troppo rapido, di due amici. Due scrittori, oggi ingiustamente dimenticati, come Rocco Carbone e Pia Pera.
Amici veri, con cui ha condiviso sogni e discussioni, illusioni e soddisfazioni. Ma anche momenti di silenzio, incomprensioni, allontanamenti e riavvicinamenti.
Rocco Carbone, scrive Emanuele Trevi, “era una di quelle persone destinate ad assomigliare sempre di più, con l’andare del tempo, al proprio nome. Fenomeno inspiegabile ma non così raro. Rocco Carbone suona, in effetti, come una perizia geologica. E molti lati del suo carattere per niente facile suggerivano un ‘ostinazione, una rigidità da regno minerale. A patto di ricordare, con i vecchi alchimisti, che non esiste in natura nulla di più psichico delle pietre dei metalli”. Di Pia Pera, che a Francesco Cataluccio apparve come “una simpatica signorina inglese”, lo scrittore ricorda la presenza nel fondo del suo animo, anche nei momenti più difficili, di “una vocazione inestirpabile ad accudire, proteggere – esseri umani, animali, vegetali. E quel gesto protettivo catturato dalle foto le è così connaturato che assomiglia più al respiro e al battito del cuore che alle decisioni consapevoli”.
Ma sarebbe troppo facile, scrive Emanuele Trevi, lasciarsi catturare dalla sicurezza della memoria. O, ancor di più, dai dubbi. Perché “chi può dire con certezza” se hanno avuto una vita felice o infelice? E allora, nelle pagine di questo delizioso libro, è necessario “cercare la distanza giusta, che è lo stile dell’unicità”. Dal momento che “più ti avvicini a un individuo, più assomiglia a un quadro impressionista, o a un muro scorticato dal tempo e dalle intemperie: diventa insomma un coagulo di macchie insensate, di grumi, di tracce indecifrabili. Ti allontani, viceversa, e quello stesso individuo comincia ad assomigliare troppo agli altri”.
E allora, tra il racconto di tante serate trascorse in tre e di certe lunghe conversazioni al telefono, tra la condivisione dei progetti letterari e l’incontro improvviso con la Morte, Emanuele Trevi restituisce ai lettori il ritratto di un Rocco Carbone posseduto dalle Furie che lo spingevano a vivere sempre con grande forza ogni propria idea, ogni storia che la vita gli andava proponendo. Fino a cercare, con spigolosa determinazione, la via alla letteratura prima con “Agosto”, poi con “L’apparizione” e, infine, con il romanzo postumo “Per il tuo bene”. Un viaggio dentro la scrittura, il suo, dettato dall’ossessione della semplificazione. Dalla ricerca di uno stile che assomigliasse soltanto a se stesso.
E Pia Pera, ottima traduttrice dal russo, tanto da convincerla a imbarcarsi nell’operazione di riscrivere la “Lolita” di Vladimir Nabokov con gli occhi della ragazzina protagonista, in un non fortunato “Diario di Lo”. riprende vita in questa pagine con tutta la sua timida sfrontatezza. Che negli ultimi anni, segnati ormai dall’avanzare di una malattia terribile come la Sla, ha trovato il coraggio di specchiarsi nella Natura. Regalando tutta la propria energia alla cura del suo giardino. E alla scrittura di libri originali, sapienziali come “L’orto di un perdigiorno” e”Al giardino ancora non l’ho detto”.
“Due vite”, a modo suo, fa dimenticare che Pia Pera, scomparsa il 26 luglio del 2016, e Rocco Carbone, morto in un incidente con la moto il 18 luglio del 2008, se ne siano andati per sempre. Alla fine del libro, infatti, rimane la sensazione che queste pagine intrise di sincera amicizia, mai false, mai disposte a oscuare o tacere i momenti di tensione e di incomprensione, resteranno il modo più forte e bello per riportare i due scrittori sotto gli occhi dei lettori. Come in un dialogo di carta tra il mondo dei vivi e quell’aldilà che ognuno racconta a modo suo.
L’amicizia, nelle parole di Emanuele Trevi, assume la forma di un’esperienza di vita limpida, iniziatica, importante. Mai sporcata da “quell’ozioso infame di Eros”, che in questo caso non è riuscito a “metterci lo zampino” per intorbidare la storia di significati diversi. Più ambigui e transitori.
Lo stile dell’unicità ha trasformato queste “Due vite” in altrettanti ritratti che parlano, sorridono, soffrono, palpitano. Perché, un’altra volta ancora, la letteratura è riuscita a fare la sua magia più grande: ridare forma a chi non c’è più.
<Alessandro Mezzena Lona<