• 27/07/2021

Andrea Bajani: “Che bello scrivere della vita che succede”

Andrea Bajani: “Che bello scrivere della vita che succede”

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Ci hanno provato in tanti a scardinare la struttura classica del romanzo. Nei modi più fantasiosi e, spesso, astrusi. Andrea Bajani ha seguito semplicemente la sua visione della letteratura, della vita. Togliendo ai personaggi del nuovo romanzo che andava scrivendo tutta la partecipazione empatica che accompagna, di solito, le figure di carta. Li ha scavati fino a trovare la loro essenza più intima. Come uno scultore che forgia la materia e non si ferma se non dopo aver eliminato il superfluo. Li ha chiamati con i nomi più banali, eppure più intrisi di significato: Io, Moglie, Figlia, Padre, Madre, Genitori, Parenti. Distillando, in poco più di 240 pagine, uno dei libri più originali e sorprendenti pubblicati in questo primo scorcio di terzo millennio.

Ma non basta. Mancava ancora qualcosa al romanzo di Andrea Bajani. I luoghi, i palcoscenici perfetti per accogliere personaggi privati di tutta la loro inutile sovrastruttura. Così, sono entrate in scena le case. Quei frammenti di città, realissimi eppure sospesi al confine con l’immaginazione, che Io ha abitato nel corso dei suoi giorni. Dall’infanzia in poi. Stanze, cucine, salotti, anonimi vani, elencati in una sorta di mappa catastale in tutti i loro dettagli più minuziosi. In un elenco per niente banale di mobili, di scorci da guardare dalle finestre, di rumori e di odori, di stoviglie ed elettrodomestici. Un inventario di architetture e suggestioni capace di seguire, con discreta lontananza e coinvolgente partecipazione, la folla dei ricordi. Le sensazioni, le emozioni, i sogni e gli sbagli che hanno contrappuntato il divenire umano di Io.

Non è per pura coincidenza che “Il libro delle case” (Feltrinelli, pagg. 251, euro 17) abbia messo d’accordo le giurie del Premio Strega e del Campiello 2021. Tanto che Andrea Bajani, lo scrittore nato a Roma che da molti anni vive a Torino, si giocherà la vittoria nel Premio veneziano, dopo essersi qualificato quinto nella serata finale di quello romano. Sabato 4 Settembre, all’Arsenale della città lagunare, dovrà vedersela con Giulia Caminito e il suo romanzo “L’acqua del lago non è mai dolce” (Bompiani), Paolo Malaguti e “Se l’acqua ride” (Einaudi), Paolo Nori e”Sanguina ancora” (Mondadori), Carmen Pellegrino e “La felicità degli altri” (La nave di Teseo).

Andrea Bajani, che da anni fa parte della giuria del Premio von Rezzori, ha già vinto riconoscimenti importanti come il Bagutta, il Super Mondello, il Brancati, Lo Straniero, con i suoi romanzi “Ogni promessa, “Se consideri le colpe”, mentre “Cordiali saluti” ha incontrato anche il favore della critica e del pubblico francese e tedesco. Questa volta, con “Il libro delle case”, arriva in finale al Campiello con gli applausi convinti della Giuria dei Letterati, che a fine maggio ha scelto la cinquina dei vincitori nella consueta riunione a Palazzo Bo di Padova. Tanto da spingere uno dei giurati, il musicista e scrittore Roberto Vecchioni, a sbilanciarsi fino a dire: “Per me c’è già un vincitore di questa 59.a edizione. È Andrea Bajani“.

“Il libro delle case” non è solo un viaggio alla ricerca dell’identità dei personaggi. E lo scrittore non si accontenta nemmeno di prendere per mano il lettore e portarlo a guardare fino in fondo all’abisso del vivere un’esistenza normalissima, eppure densa di sorprese e contraddizioni. Perché questo romanzo trova in sé, dettaglio dopo dettaglio, il coraggio di costruire un’autofiction del tutto immaginaria. Io, infatti, sembra disposto ad accogliere nel proprio perimetro narrativo i ricordi di Andrea Bajani stesso. Soltanto all’inizio. Per reclamare poi, in fretta, tutta l’autonomia e la libertà di movimento che la pagina gli concede.

In questo lungo cammino a ritroso nel tempo si affaccia la storia recente d’Italia. Soprattutto in due momenti tragici che hanno segnato con il sangue l’idea stessa di futuro: la morte violenta del poeta e regista Pier Paolo Pasolini all’Idroscalo di Ostia e l’assassinio politico dello statista Aldo Moro, perpetrato dalle Brigate Rosse davanti alla granitica irremovibilità dello Stato ad aprire una trattativa per la sua liberazione. Su tutte le storie de “Il libro delle case”, come una sorta di spirito guida, veglia la presenza reale e simbolica di una tartaruga. Una sorta di testimone appartato del divenire dell’umanità. Ma anche, in una prospettiva più ristretta e personale, di quello che Io si trova a vivere: da bambino a studente universitario, da giovane amante a padre di famiglia, da adulto in carriera a sfuggente uomo solitario che deve fare i conti con l’onda d’urto dei ricordi.

Io, il pronome più lurido, diceva Carlo Emilio Gadda. Nel “Libro della case”, però, diventa il centro di un mondo?

“Nella meravigliosa corrispondenza tra i due più grandi scrittori della letteratura svizzera del Novecento, Max Frisch e Friedrich Dürrenmatt – spiega Andrea Bajani -, Dürrenmatt scrive che Frisch ha fatto del suo caso personale il mondo, mentre lui ha fatto del mondo il suo caso personale. Ecco mi pare che lì stia la questione centrale della letteratura contemporanea: usare se stessi per parlare solo di sé o per parlare anche del mondo? Amo poco l’autofiction anche se la leggo e la insegno all’università, perché mi pare rinunci allo strumento più proprio della letteratura, quello spazio di invenzione che passa attraverso la lingua. Per questo ho deciso di utilizzare un “Io” ma narrato in terza persona, di farlo personaggio, di andargli dietro con le parole e vedere che cosa aveva da dirmi che ancora non sapevo su di me e soprattutto sul mondo che mi circonda. Scrivere per me è un processo di conoscenza, scrivere di me non mi interessa, scrivere di “Io” sì perché non lo conosco a sufficienza”.

Raccontare una vita attraverso i luoghi abitati. Qual è stato lo spunto che ha innescato la narrazione?

“Una visita alla casa in cui abitai durante i miei primi tre anni di vita, a Roma. Dopo averla in qualche modo scansata per molto tempo, un giorno per puro istinto, durante una mia visita romana (vivevo ormai a Torino da molti anni), presi il coraggio di tornare a guardarla da vicino. È un desiderio comune a molti, forse a tutti, anche se non tutti poi hanno l’ardire o la sfacciataggine di andare a suonare al campanello. Mi aprirono la porta due signori anziani, che mi guardarono quasi scusandosi di abitare in quel posto che era stato così mio. Ho pensato molte volte a quella visita, e di fatto a un certo punto ho capito che il mio desiderio era quello di reincontrare quel bambino di tre anni che aveva vissuto lì. Era come se sperassi di vedermi corrermi incontro. Credo sia nato tutto da lì, dal pensiero che abitiamo ancora in tutte le case in cui abbiamo vissuto. E che dunque per provare a raccontarsi l’unica possibilità è quella di andare a suonare al campanello delle case in cui abitavamo nelle diverse età della nostra vita. E guardarsi per un po’, senza invadenza, lasciando a quegli “io” che siamo stati tutto il diritto di essere quello che sono stati, senza obbligarli per forza ad assomigliare alla persona che siamo oggi”.

Personaggi dalla gelida indeterminatezza in un racconto che dà emozione al lettore. Due registri di narrazione cercati fin dall’inizio del suo progetto di romanzo?

“Mi piace molto questa domanda, perché va al cuore di questo romanzo, e raramente l’ho vista formulata così. Dentro le case noi viviamo una specie di assoluta verità di noi stessi: siamo nell’intimità più nuda, senza difese, e in quella condizione amiamo, soffriamo, gioiamo, ci annoiamo. Dentro le case passano e succedono momenti di incandescenti passioni o emozioni, di cui nessuno sa – a parte i muri, soli testimoni. Poi portiamo fuori di casa una specie di versione di noi stessi buona per gli altri. Per questo non si sa niente delle violenze domestiche, così come non si sa niente della tenerezza di certi abbracci tra un padre o un figlio, o delle lacrime di commozione per un tramonto. Per me era importante riuscire a rendere questo scarto tra la freddezza dei muri in cui le cose succedono e la temperatura della vita. Paradossalmente, la vita si sente in maniera più forte se maneggiata con sobrietà verbale. È una questione stilistica, anche: non credo e non mi piace il rovesciare addosso ai lettori slavine di retorica emozionale. Mi piace viceversa chiedere alle parole di dare forma a quelle emozioni, e al lettore di partecipare”.

Di solito i personaggi, a un certo punto, reclamano una propria libertà da chi scrive. Nel suo caso è stato così?

“Direi che è successo alla terza riga del romanzo, quando ancora non sapevo che cosa stavo scrivendo, quando ero lontano sei anni dalla fine. È avvenuto non appena ho cominciato a scrivere di me e delle case che avevo abitato, dopo aver stilato un diligente elenco sopra un foglio. Alla terza riga ho capito che “io” non ero io, che quel tizio che aveva vissuto dentro le mie case reclamava la sua natura di personaggio. “E io dovrei essere te?”, mi ha come chiesto scandalizzato. E ho capito che aveva ragione e che dovevo liberarlo. E invece di scrivere una frase come “io mi alzo”, ho scritto “Io si alza”, e l’ho lasciato libero di essere quello che voleva essere. Devo dire che è stato assai più divertente anche per me, che ho imparato molto. Lo stesso è poi avvenuto per Madre, Padre, Sorella, Moglie ecc. E persino con Poeta e Prigioniero, ovvero Pasolini e Aldo Moro: hanno voluto sfilarsi dall’imposizione della realtà per poter aver avere vita nuova in un romanzo”.

Le case sono una specie di privato labirinto. Ma potrebbero essere anche una mappa, meno visionaria e più burocratica, delle calviniane città invisibili; luoghi metaforici dello scrittore?

“Calvino ha giocato un ruolo importante nella scrittura del libro. Ma non ne ero consapevole, mentre ero al lavoro. E poi i lettori mi hanno fatto ripensare alle ‘Città invisibili’, a ‘Palomar’ e a ‘La strada di San Giovanni’, l’ultimo e più personale libro di Calvino. E così mi sono reso conto di quanto poco sappiamo dei libri che scriviamo, delle spinte che da sotto ci portano a scrivere quello che scriviamo. Ed è certamente vero che questo è un libro di labirinti: se mettessimo insieme tutte le case in cui il protagonista è vissuto si configurerebbe un condominio labirintico, che poi è molto banalmente quello che tutti siamo. Facciamo finta di sapere qual è la via d’uscita ma in realtà viviamo un metro per volta”.

“Il libro delle case” è un’autobiografia inventata? O Andrea Bajani può rivendicare: Io c’est moi?

“Rimbaud questa cosa l’ha detta una volta per tutte: Je est un autre, Io è un altro. Detto altrimenti, vale quello che dicevo poco fa, quell’io che sono stato doveva essere libero di diventare, dentro un romanzo, quello che voleva, cioè un personaggio. Ma mi interessava farlo vedere, questo passaggio, questo partire dalla mia autobiografia per diventare la biografia di “Io”. In questo passaggio c’è la distanza tra il memoir e il romanzo, in cui io credo ancora profondamente. Un romanzo può utilizzare materiali autobiografici senza per questo rinunciare a creare un mondo che prima di quel libro non esisteva. Credo che Il libro delle case sia per certi versi l’evidenza dell’impossibilità di fare autobiografia, e in fondo anche una certa mia noia a sentire sempre gli stessi discorsi su l’autofiction. Non credo esista autofiction possibile, esiste se mai la fiction dell’io”.

Ricorre spesso la presenza della tartaruga, anche sulla copertina. Personaggio centrale nella storia, che non ti aspetti?

“È venuta da sé. Avevo una tartaruga da bambino, si chiamava Genoveffa, ed era per l’esattezza la tartaruga di mia nonna. Esperta in case e in foglie di lattuga. La tartaruga mi interessava per due ragioni fondamentalmente. La prima è che ci dimentichiamo troppo spesso che non siamo l’unica specie sul pianeta, e che anche il nostro spazio domestico non di rado va negoziato con altri animali. La seconda è che le tartarughe sono gli ultimi esemplari di preistoria ancora a piede libero. E nel libro, che in fin dei conti è un libro sul tempo, ha una funzione ironica: di fronte al tanto che succede ai personaggi, Tartaruga aiuta a mettere una specie di benefica distanza. È come se dicesse ‘d’accordo, la fine di un matrimonio è dolorosa, una famiglia disfunzionale è un dolore, però suvvia, io ho visto sparire dal pianeta tante specie, rilassatevi'”.

In finale allo Strega e al Campiello: una soddisfazione concessa a pochi scrittori, negli ultimi vent’anni. Orgoglioso?

“Sì, molto contento. Ma ciò che mi piace ancora di più è che tutto questo sia venuto dopo un silenzio di molti anni, dopo una scrittura lenta. Mi conferma nella necessità di rallentare, di lasciare spazio al silenzio, di sottrarsi alla presenza pubblica costante. Mi pare che ci sia una sorta di “professionismo” della scrittura che erode concentrazione, infragilisce la letteratura. Esserci, presenziare, presentare, essere ai festival, essere presenti nel dibattito, è un tarlo che fa dei grossi buchi nella letteratura di questi anni. Queste due finali, a cui vorrei aggiungere l’orgoglio della finale del Viareggio per la poesia, mi dicono che è stato un bene, che si sente il silenzio che sta dietro un’opera”.

Lei fa parte da anni della giuria del Premio von Rezzori, meritevolissimo per gli autori che segnala. Come vive questo doppio ruolo di giudice e giudicato?

“Credo i premi siano parte di un sistema che mette in dialogo chi scrive e chi legge. Al pari dei librai, dei bibliotecari, degli editori contribuiscono a quel rapporto di fiducia che sta alla base del leggere. Per cui non mi sento giudice o giudicato, ma sempre dentro una staffetta per tenere vivi i libri e le coscienze. Il von Rezzori ha la specificità di essere dedicato alla letteratura straniera pubblicata in Italia. E dunque, pone l’attenzione su una questione centrale, ovvero la traduzione. La traduzione è civiltà, è aprirsi all’altro, e tendersi la mano per restare uniti nonostante le barriere linguistiche”.

C’è una grande passione, oltre a quella per i libri e la scrittura, che abita la sua vita?

“Le persone, senza dubbio. La mia grande passione è starmene seduto in un bar o in un ristorante, da solo, e assistere alla vita che succede. Non credo di provare più grande piacere di questo, bello o brutto che sia lo spettacolo che ho di fronte. Credo, con i libri, di provare a riprodurre proprio questo. Ma è impossibile, le persone sono i veri capolavori romanzeschi. Ne avessi il coraggio, smetterei di scrivere e mi limiterei ad assistere alla vita che succede”.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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