Lo chiamavano Sior Tita, lassù nei paesi della Carnia. Sembrava un nomignolo simpatico, accattivante, del tutto innocuo. Invece, all’ombra di quel misterioso, invisibile personaggio, si nascondeva il peggior nemico di tutta la cristianità. Proprio lui: Satana, Lucifero, Belzebù. L’angelo caduto, il grande ribelle, il caprone dalle sembianze umane. La quintessenza del Male. Un tipaccio che, a forza di evocarlo, sembrava aver messo dimora dalle parti di Verzegnis. O, meglio, nelle varie frazioni distribuite su un altipiano alla destra del Tagliamento e racchiuse tutte insieme in quel comune: Chiaulis, Villa, Intissans, soprattutto Chiaicis. Prova ne sia che tra il 1878 e il 1879, prima in sordina e poi in maniera sempre più clamorosa e dirompente, prese forma una strana epidemia. Un gruppo di giovanissime donne cominciò a manifestare sintomi inquietanti: convulsioni, tremori, accessi di ira tremenda che le portavano a parlare con voce maschile, a bestemmiare, a rifiutare i sacramenti e la presenza dei simboli religiosi.
La gente dei paesi chiese subito l’intervento dei preti. Dissero che quelli erano “affari di stola”, che le ragazze sarebbero guarite soltanto quando gli esorcismi avrebbero cacciato fuori dal loro corpo il “diaul”: Sior Tita, appunto. Parlarono di malefici, di fatture lanciate sulla comunità di quei borghi carnici da gente cattiva. Ma il caso delle indemoniate di Verzegnis non rimase confinato in quei borghi. La voce di quello che stava accadendo lassù, in montagna, arrivò fino a Udine. Coinvolse le autorità civili, il prefetto di Udine. Poi fece il giro d’Italia, motivando interpellanze in Parlamento. Data che sancì la fine del potere temporale dei Papi.
Il caso delle ragazze di Verzegnis, insomma, riportò a galla i rapporti tesissimi tra il Regno d’Italia e la Chiesa cattolica dopo la breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870. Che sancì la fine del potere temporale dei Papi. Sguinzagliò medici in carriera, che ottennero la fine immediata degli esorcismi. Attirò l’approvazione di studiosi allora assai stimati come Cesare Lombroso. Ribaltò il sospetto di possessione diabolica in una diagnosi più scientifica di demonopatia isterica. Sguinzagliò i carabinieri, comandati a stroncare nei paesi ogni diffusione di arcaiche superstizioni. E, nel nome della scienza, finì per invadere pesantemente la libertà individuale di diverse persone. Portando le persone ad agire, ovviamente, per il bene della comunità.
La storia risale a un passato remoto. Ci dividono oltre centoquarant’anni da lei. Eppure, giornalisti e storici, scrittori e registi, non smettono di interrogarsi sul mistero di Verzegnis. Proprio in questo periodo, due libri ritornano a mettere a fuoco le vicende accadute tra il 1878 e il 1879 in quelle frazioni.,
Il saggio di Luciana Borsatti “Le indemoniate. 1879: sfida tra Stato, scienza e Chiesa a Verzegnis” (Castelvecchi, pagg. 281, euro 20) è frutto di un lungo percorso di studio e di documentazione. Tanto che questa nuova edizione, nata dalla tesi di laurea della giornalista che ha lavorato per l’Agenzia Ansa, è adesso arricchita dai contributi di importanti studiosi come Pietro Barbetta, Alberto Panza e Salomon Resnik, ma anche dalla prefazione di Mario Galzigna. Tutta la prima parte del libro ripercorre le accidentate tappe di una vicenda sensazionale, che affonda le radici in un contesto sociale particolare. Visto che in quei paesi della Carnia le condizioni di vita erano estremamente disagiate per gli abitanti di quelle frazioni. Freddo, miseria, fame, isolamento quasi totale rispetto ai centri più vicini come Tolmezzo. La solitudine enorme della mogli, delle mamme, delle figlie, costrette a lavori pesanti per governare la casa e gli animali, in attesa che i mariti, i padri e gli uomini più giovani tornassero dalla Germania, dall’Austria, dalla Svizzera, quai sempre nel periodo delle feste natalizie. Emigranti costretti a abbandonare il proprio paese nella speranza di raggranellare qualche soldo in più per aiutare la famiglia.
Se non bastassero tutte queste difficoltà a rendere la vita delle genti carniche assai grama, si aggiungeva uno scontro frontale tra la Chiesa e i rappresentanti dello Stato. I preti non si rassegnavano a perdere la propria autorità. Dopo la Breccia di Porta Pia vedevano proliferare attorno a loro i miscredenti, gli atei, i massoni. E, spesso, rispondevano irrigidendosi. Negando, ad esempio, alla frazione di Chiaicis il permesso di celebrare certi riti religiosi nella capellania di Villa. Soltanto per non sminuire l’importanza e l’autorità della parrocchia di San Martino. Tanto da spingere alcune persone a ribellarsi a quella decisione e a rifiutare la sepoltura dei propri cari con la funzione religiosa. In più, dalle parti di Verzegnis, capitava ogni tanto un missionario. Di solito, erano predicatori abituati a seminare il panico aleggiando lo spettro della possessione diabolica. Non facevano mistero di considerare certi politici, come il sindaco progressista Antonio Billiani, utilissimi intermediari per consegnava la popolazione direttamente nelle mani del Maligno. Non si rendevano conto che, lassù, alle gente restavano davvero poche possibilità di divertimento, di distrazione. Per non dire nessuna.
La prima a dare segni di inquietudine, a contorcersi nelle convulsioni, bestemmiare, rifiutarsi di rendere omaggio al parroco e ai preti inviati dalla Curia di Udine fino a Verzegnis, fu Margherita Vidusson. Una ragazza che tutti ammiravano per la sua solare bellezza. Subito dopo, anche la sua amica Lucia Chialina, che insieme a lei veniva considerata la ragazza più carina di quell’agglomerato di paesi, cominciò a comportarsi in maniera del tutto anomala. Tanto da convincere il vescovo ad autorizzare il parroco per iniziare un esorcismo, secondo il rito previsto dalla Chiesa, che non diede praticamente nessun risultato.
Fu a quel punto che il prefetto, in rappresentanza del governo centrale guidato da Agostino Depretis, decide di prendere in pugno la situazione. Inviò a Verzegnis due medici molto stimati: Fernando Franzolini e Giuseppe Chiap. Che, a quel punto, erano decisi a usare “il bastone della scienza” portando lontano dai paesi quelle ragazze. Facendole ricoverare nell’ospedale psichiatrico di Udine le allontanarono da un clima intriso di superstizione e suggestioni malate. Recidendo il cordone ombelicale che aveva dato forma alla loro epidemia di demonopatia isterica.
Stato e Chiesa, in quell’angolino di Regno d’Italia, si scontrarono in maniera frontale. Intervennero i carabinieri, le ragazze furono sottratte alla potestà familiare, si fece di loro il simbolo di un’isteria nutrita dalla superstizione e dall’ignoranza. Perché non si poteva accettare che una brava donna, futura mamma e moglie, andasse contro le regole stabilite dalla società. Non si provò, invece, a offrire a quelle giovani occasioni di svago e di intrattenimento. Uno stile di vita meno massacrante, che potesse regalare loro qualche speranza per il futuro. Com’era accaduto, qualche anno prima a Morzine, in Francia, che si trovò al centro di una violentissima crisi, simile a quella di Verzegnis, e venne debellata scardinando l’isolamento e l’arretratezza culturale della società.
Ancora oggi, il caso delle “Indemoniate” di Verzegnis sta lì a dimostrare quanto sia sempre difficile trovare una terza via d’azione tra il tradizionalismo religioso, la superstizione, la diffusione di apocalittiche idee capaci solo di creare turbamento in certe menti fragili, e il modernismo liberale della scienza. Che, ancora oggi, troppo spesso si crede depositaria di verità indiscutibili. Quando la Storia stessa è lì a dimostrare che non è affatto così.
Bella l’idea di Raffaella Cargnelutti di dare voce ai protagonisti delle vicende nel romanzo “Le spiritate di Verzegnis” (Mursia, pagg. 257, euro 17). Perché ha saputo raccontare lo smarrimento di giovanissime ragazze davanti a fenomeni che, con la possessione diabolica, non avevano niente a che vedere. Questo suo libro ci ricorda che, spesso, la narrativa riesce a sfruculiare nelle zone rimaste in penombra di storie complesse, come quella delle ragazze di Verzegnis. Del resto, non va dimenticato che Jules Michelet, pubblicando il 15 novembre 1862 il suo romanzo “La strega”, riuscì a terremotare perfino il cuore di un grande poeta come Charles Baudelaire. Provando a raccontare la ribellione delle donne costrette a inventare un culto diabolico pur di scardinare lo stile di vita che le costringeva a un’esistenza alienante e miserrima.
<Alessandro Mezzena Lona