• 26/07/2022

Daniela Ranieri: “Il mio Stradario per non arrendersi al caos”

Daniela Ranieri: “Il mio Stradario per non arrendersi al caos”

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Quando scrive libri, Daniela Ranieri riduce in coriandoli un bel po’ di stereotipi. Ad esempio, lei che dedica articoli alla politica e alla cultura su “Il Fatto Quotidiano” dimostra che non per forza i libri di un giornalista devono essere frivoli, leggeri, acchiappalettori. E poi, se decide di affrontare uno degli argomenti-prezzemolo della narrativa contemporanea, come i rapporti d’amore, lo fa con una lucidità, una ferocia, un’onestà di racconto, che pochi autori possono permettersi. In più, con il suo stile, gli innumerevoli registri di linguaggio che usa, la prorompente tridimensionalità dei personaggi che mette in scena, si sottrae con evidenza a quella sciagurata deriva che insiste a intruppare tutte le autrici in una fantomatica, vaga e del tutto ghettizzante, letteratura al femminile.

Insomma: tra gli scrittori originali, coraggiosi, imprevedibili, Daniela Ranieri ha un suo posto in prima fila. È una creatrice di storie da preservare da inquinamenti editoriali. Da tenere alla larga da un certo andazzo che vorrebbe tutti i romanzi confezionati per scalare le classifiche dei libri più venduti. E assecondare, così, la pigrizia di troppi lettori, pronti a farsi imboccare dalle solite pappette narrative precotte. Del resto, la sua voglia di seguire altre strade l’ha già dimostrata nelle opere precedenti: “Tutto cospira a tacere di noi” e “Mille esempi di cani smarriti”.

Ma quest’anno, Daniela Ranieri, che affida a un laconico “dopo gli studi di Antropologia culturale ha conseguito un dottorato in Teoria e ricerca sociale” le sue informazioni biografiche, ha attirato su di sé prima gli occhi della giuria dello Strega. Poi quelli della Giuria dei Letterati del Premio Campiello, che l’ha inserita tra i cinque finalisti dell’edizione 2022 con il suo “Stradario aggiornato di tutti i miei baci”, pubblicato da Ponte alle Grazie (pagg. 689, euro 19.80). Contenderà la vittoria, sabato 3 settembre al Teatro La Fenice di Venezia, a Fabio Bacà con “Nova” (Adelphi), Antonio Pascale con “La foglia di fico” (Einaudi), Elena Stancanelli con “Il tuffatore” (La nave di Teseo), Bernardo Zannoni con “I miei stupidi intenti” (Sellerio).

“Stradario aggiornato di tutti i miei baci” si rivela un oggetto narrativo tutto da decifrare fin dal titolo. Che solo in apparenza può sembrare facile, accattivante, vista la presenza della parola “baci”, abbinata però a qualcosa di molto preciso, e tutt’altro che ammiccante, come uno “stradario aggiornato”. Detto in due parole, il libro potrebbe essere descritto come il lungo viaggio a ritroso nella memoria di una donna, da cui emerge un campionario di incontri con uomini che, rielaborando il titolo di un piccolo gioiello di David Foster Wallace, sarebbe meglio non rivedere più. Ma è proprio nello specchio deformante di questi incontri, nella delusione di scoprire un’umanità così arresa a quella che Italo Svevo chiamava la malattia come condizione antropologica, che Daniela Ranieri fa brillare tutte le contraddizioni e le fragilità della sua protagonista. Una donna indubbiamente accompagnata da ossessioni, ipocondrie, nevrosi e idiosincrasie. Ma, al tempo stesso, capace di leggere la realtà con sguardo fermo, tagliente e lucidissimo. Mai arreso alla deriva di un pensiero addomesticato.

Lo “Stradario aggiornato” diventa, così, una mappa per orientarsi in una Roma che ha perso da tempo la sua anima. In una società che deve fare i conti con l’assalto furioso di un piccolo virus, dopo aver fatto scempio dell’ambiente in cui vive. In un mondo che si è lasciato sopraffare dalla maleducazione, dall’ignoranza, dalla bruttezza, dal degrado, dalla volgarità. A tenere fermo il piede della protagonista, mentre avanza su un terreno così accidentato e impervio, non possono essere che alcuni grandi spiriti guida: Friedrich Nietzsche prima di tutti, implacabile dispensatore di ragionamenti capaci di indicare sempre la rotta giusta. E poi Franz Kafka, che con le sue storie ha saputo mettere in luce i paradossi e le trappole imperscrutabili del reale. Ma anche l’ingegnere Carlo Emilio Gadda, maestro assoluto di stile e ironia, e Gesualdo Bufalino, con la sua dissonante visione barocca delle cose.

Da dove nasce la forma dello “Stradario aggiornato di tutti i miei baci”: non romanzo né saggio, non autobiografia né pura divagazione?

“Non volevo raccontare una storia – spiega Daniela Ranieri -, ma tante sottotrame tenute insieme da un io-narrante che fa i conti con le cose materiali e immateriali della vita. L’idea era quella di mettere ordine nel caos: ma il caos dovevo ben rappresentarlo. Una storia piana, senza incroci, inciampi e interferenze, non avrebbe potuto. Anche nel mio romanzo precedente, ‘Mille esempi di cani smarriti’, ci sono più piani di narrazione, continue analessi, salti temporali, una fabula che si riavvolge su se stessa, torcendo continuamente la narrazione. Qui gli eventi raccontati sembrano tutti simultanei, è uno Zibaldone di pensieri e non-pensieri messo in forma di mappa. In più ci sono molti riferimenti letterari, perché alcuni libri e il loro contenuto sono per la protagonista una zattera nella tempesta. Mi fa piacere che questa forma sia piaciuta a tanti lettori giovani, che evidentemente hanno un’abitudine alla “fruizione elastica” datagli dalla frequentazione del digitale. Però, anche, sono 700 pagine, da trattato o saggio morale in cui ogni dettaglio è approfondito: praticamente l’anti-Twitter”.

La protagonista: una donna piena di magagne fisiche, idiosincrasie, pensieri lucidi e implacabili. Quante donne le sono servite per crearla?

“Può sembrare strano, ma mi sono serviti più uomini che donne. Parlo dei personaggi immaginari che più mi interessano, protagonisti di capolavori della letteratura: il Gonzalo Pirobutirro della ‘Cognizione del dolore’, da cui prendo tra le tante cose l’iperacusia, cioè l’eccessiva sensibilità ai suoni e ai rumori; Don Giovanni, per l’oltranza erotica e la malinconia; il Capitano Achab di ‘Moby Dick’ per la sua monomania, per il mal di vivere e per l’estraneità agli altri esseri umani; Martin Eden, per l’ostinazione nell’illusione d’amore, per la forte tensione politica e per la tristezza della delusione che gliene deriva; tutti gli io-narranti di Thomas Bernhard, per la tendenza all’invettiva e al monologismo. Queste figure maschili hanno contribuito a comporre una figura iper-femminile inedita, che rivendica la sua identità molto netta e pulita in una società prevalentemente maschile”.

Nella nota finale cita Italo Svevo: “È un’autobiografia, ma non la mia”. Temeva la solita domanda: è lei la protagonista?

“Purtroppo non ho potuto sottrarmi alla domanda-incubo. Come se cambiasse qualcosa, poi. Il fatto che le cose che scrivo mi siano successe davvero oppure siano frutto di fantasia non cambia nulla ai fini della narrazione, la cui credibilità si fonda su criteri affatto diversi rispetto alla veridicità o alla verosimiglianza. La verità letteraria non coincide con la sincerità, ed essere sinceri non è una qualità richiesta a uno scrittore. Altrimenti si sarebbe dovuto processare Dostoevskij per l’omicidio di una anziana usuraia. A chi dovrebbe interessare la mia vita? Se proprio qualcuno si vuole togliere la curiosità (a cui Svevo rispose in quel modo geniale, anticipandola), rispondo nel modo più onesto: ho inventato tutto partendo da dati reali e fatti realmente accaduti su questa Terra. Da dove avrei preso, sennò, lo spunto per l’invenzione?”.

L’amore, scrive, ci rende daltonici, impedisce di conoscere le persone: siamo davvero riusciti a avvelenare i sentimenti?

“L’avvelenamento dei sentimenti è un affare antichissimo. Non lo abbiamo inventato noi. Tutta la mitologia greca ne è intrisa. Giasone è un seduttore, uno che finge e tradisce i sentimenti per ambizione e calcolo personale (Claudio Magris dice che è “pura superficie seduttiva”). La metafora del daltonismo mi serve per dire che spesso ciò che noi vediamo di colore giallo l’altro, l’amato, lo vede rosso e in realtà è blu, e che quindi non c’è incontro tra anime sul piano del logos. Quando si cerca quello, vuol dire che non è abbastanza forte l’eros. C’è un frammento postumo di Nietzsche, che cito nel romanzo, che dice: “Ciò che non si conosce non si può amare, altrimenti si ama qualcos’altro, cioè un fantasma, e questa è la cosa abituale. L’amore è certamente tutto meno che un mezzo di conoscenza”. Amare fantasmi sconosciuti è quel che noi spesso, equivocando, chiamiamo amore. Raramente si torna sui propri passi dicendo: “Scusa, mi sono sbagliata/o, grazie lo stesso”, e così si arriva al matrimonio o a lunghe convivenze tra fantasmi. È una malattia borghese. Forse adesso si vive il rovescio di questa anamorfosi, e cioè appena si scopre un difetto nell’altro ci si lascia. Così, ancora, l’amore non è mai un mezzo di conoscenza, ma una piegatura dell’altro alla immagine che ne abbiamo”.

La mente razionale e quella emotiva seguono strade diverse: è così?

“La mia protagonista vive questo agone continuo, è sempre all’erta. In lei prevale la logica, che spesso distrugge l’amore, così come l’Illuminismo distrusse le superstizioni e le credenze erronee della civiltà occidentale. Ma è un bene, in assoluto? Il punto è: quanta verità siamo disposti a sopportare in amore? Non deve esserci di necessità un angolo buio per mantenere una quota di incanto? Per fortuna lei incontra un uomo contro cui la logica, sebbene scagliata con precisione, non produce ammaccamenti”.

Gli uomini del libro: un catalogo di freaks, di casi umani, che si illudono di essere normali. Se ne salvano pochissimi?

“Qualche uomo si salva. Ci sono due o tre figure maschili nel libro di deliziosa gentilezza e grande bontà d’animo. Il catalogo di casi umani (che si credono normali perché sono normali, nel tempo dei folli) mi serve a due scopi: soffermarmi su dettagli tragicomici, su grettezze spirituali, su meschinità e tradimenti miserrimi e rappresentare così una crisi generale; e al contempo per comporre un quadro d’insieme di intensa sfortuna che si abbatte sulla narratrice. I personaggi letterari sfortunati sono i più divertenti. Devono attivare tutta una serie di risorse interiori per non soccombere. La più importante è l’ironia. Senza l’ironia, che è diversa dal cinismo, la mia protagonista sarebbe perduta. È l’anti-Félicité, la protagonista di Un cuore semplice di Flaubert. È più simile a una Emma Bovary senza marito. Non subisce: reagisce, ma disastrosamente. Reagisce senza essere resiliente. È eroica, ma in senso classico: è Arianna derelitta che aspetta la venuta di Dioniso. Reagisce per custodire il senso dell’avventura e il gusto della grandiosità della vita”.

Le figure di Nietzsche, Franz Kafka, Carlo Emilio Gadda, sono i suoi spiriti guida?

“Sì, si può dire così. Sono morti che sento molto vicini, per cui provo dei sentimenti reali, solidi: adorazione, gratitudine, tenerezza”.

Lo “Stradario” è anche una potente riflessione su come abbiamo accettato una vita sempre più artefatta, falsificata, alienata?

“Spero di sì. Volevo che fosse una critica e una satira su alcuni miti tossici della nostra società: quello del lavoro come “realizzazione personale”; del merito; del successo; della scuola come luogo di edificazione morale (nel mio libro è invece un inferno di degradazione dell’umano); della Sanità pubblica e privata come luoghi abitati da “angeli” (è invece nel mio libro un istituto kafkiano, ai limiti del sadismo e dell’abbrutimento); del consumo offline e online. Insomma, la mia visione della società capitalista attuale non è rosea”.

Scrive: non c’è mai stato nessun uomo che io amassi come amo il mio gatto. L’amore per gli animali domestici non ci mette, però, al riparo dai disastri fatti contro il pianeta Terra?

“Il nostro legame con gli animali è in alcuni casi profondo e totale, ma non con tutti. Siamo molto ipocriti in questo: alcuni di noi sarebbero disposti a morire per il loro animale domestico (giustamente, aggiungo), ma facciamo macellare serenamente mucche, capre, vitellini, agnelli, cavalli, polli, conigli, galline, e poi li divoriamo e digeriamo in coscienza togliendoci i filacci di carne dai denti. Stabiliamo una gerarchia tra le “creature” che non siamo autorizzati a stabilire. E abbiamo visto che senza carne, se non si hanno particolari problemi di salute, non si muore. Sicuramente la situazione degli allevamenti intensivi non è più sostenibile. Spero che nel giro di pochi decenni il consumo di animali sia considerato alla stregua del cannibalismo”.

Lei non risparmia bordate tremende contro veterinari, medici e contro chi ha reso Roma il fantasma della città che era. Non le manda certo a dire…

“La bordata tremenda è un atto di resistenza: di fronte a un certo tipo di stupidità proterva, di fronte alla violenza crassa, l’alternativa è tra inveire (con la penna) o soccombere. Nel mio libro le bordate sono dirette contro chi ha potere, anche un granello, e lo usa per distruggere o manipolare chi si trova accidentalmente a un gradino più basso. Così accade spesso nei luoghi di lavoro, negli edifici pubblici, alle Asl: soccombiamo a una stupidità violenta e indiscutibile, esercitata in forza di una concezione piramidale del potere. Chi sta sopra tormenta chi sta sotto e a sua volta è tormentato da chi sta sopra di lui. Questa è la filosofia del potere di Kafka e di Adorno”.

La letteratura crea un immaginario collettivo che, nel tempo, diventa una sorta di realtà parallela?

“Certo. Per me è più vivida e mi parla di più quella letteraria che quella “reale”. Per me esistono i samovar di Dostoevskij, mi sembra di averli maneggiati per tutta la vita (mentre invece ne ho visti solo due); esistono i motel di Lolita, la brughiera di ‘Cime tempestose’, il gelato al maraschino di Emma Bovary, le rose ghiacciate di ‘Giro di vite’. È il mondo in cui abito. In quello reale mi sento sempre un po’ fuori sincrono, ospite di passaggio”.

Da dove nasce la sua passione per i profumi?

“La ho fin da bambina. Più si perfeziona la propria enciclopedia olfattiva più si dischiudono mondi, scenari, corrispondenze, immaginazioni. Mi interessa la loro natura duale, il loro essere insieme comunicazione non verbale, primitiva, naturale, e opere d’arte. Mi interessa un approccio alla natura e alla realtà pre-verbale, non mediato. Una persona cara un giorno mi ha detto: “Naso e profumo si amano”. È così: il mondo, muto e significante, entra dentro di noi toccando silenziosamente l’amigdala, accarezzando il cervello.  E poi in una bottiglia di profumo c’è la Storia, e la storiografia, anche, e la letteratura: la Londra di Dickens ha un profumo diverso rispetto alla Parigi di Proust. Il profumo ha cambiato il corso della Storia. L’Oriente penetra in Grecia attraverso le essenze profumate, già dall’VIII secolo a.C., e la cambia per sempre. A volte credo davvero che i profumi siano un mezzo immediato per parlare col divino”.

Come vive l’idea di essere finalista in uno dei più importanti premi letterari italiani?

“Ne sono onorata. Se penso che Carlo Emilio Gadda nel 1970 fu uno dei cinque finalisti, cioè vinse, come me, il Premio Selezione Campiello, mi vengono le vertigini, anzi le extrasistoli. Vorrei vincere il Premio assoluto anche solo per dedicarglielo”.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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