• 02/08/2022

Bernardo Zannoni: “Tra le parole c’è salvezza, anche per una faina”

Bernardo Zannoni: “Tra le parole c’è salvezza, anche per una faina”

Bernardo Zannoni: “Tra le parole c’è salvezza, anche per una faina” 1024 533 alemezlo
È cominciato come un gioco. Quello di un ragazzino che riusciva a trovare il modo di ancorare alle parole, alle storie, le sue fantasie. I sogni, i dubbi, le paure, le illusioni. Racconti che, poi, Bernardo Zannoni affidava alla lettura di chi potesse dare loro vita. Trasformandoli non più soltanto nel viaggio privato di un adolescente, ma facendoli diventare un percorso condiviso. Qualcosa che seguisse una traiettoria del tutto nuova.

Forse mai, però, nel suo fantasticare, Bernardo Zannoni avrebbe immaginato di ritrovarsi nella cinquina dei finalisti del Premio Campiello. A 27 anni. Con il suo primo romanzo: “I miei stupidi intenti” (Sellerio, pagg. 257, euro 16). Un libro accolto subito con grandi elogi dalla critici e con una valanga di copie vendute tra i lettori. Un debutto salutato dalle parole piene di entusiasmo da uno scrittore bravo come Marco Missiroli: “Esistono vari modi di strillare un libro magnifico. Ma solo un modo è giusto per ‘I miei stupidi intenti’: leggetelo, leggete questo romanzo in stato di grazia”.

E il bello è che Bernardo Zannoni, nella serata finale al Teatro La Fenice di Venezia sabato 3 settembre, la vittoria del Campiello se la giocherà alla pari con gli altri quattro finalisti: Fabio Bacà con “Nova” (Adelphi), Antonio Pascale con “La foglia di fico” (Einaudi), Daniela Ranieri con “Stradario aggiornato di tutti i miei baci” (Ponte alle Grazie), Elena Stancanelli con “Il tuffatore” (La nave di Teseo). E se dovesse andare a lui la sessantesima edizione del riconoscimento letterario voluto da Confindustria Veneto scavalcherebbe, nella classifica dei più giovani, Giulia Caminito. Incoronata nel 2021, a 33 anni, con il suo romanzo “L’acqua del lago non è mai dolce” (Bompiani).

“I miei stupidi intenti” racconta la storia di una faina. Ma attenzione: Bernardo Zannoni non ha voluto seguire la deriva disneyana degli animali antropomorfi. I suoi protagonisti non parlano con il birignao dei personaggi da romanzo. Attraversano la vita dovendo fare i conti con la paura, il freddo, la fame, le lotte furiose per procurarsi il cibo, il rischio di vedersi sottrarre la propria tana da qualche massiccio e prepotente abitante del bosco. Perso il padre in maniera violenta quando è ancora cucciolo (“Rubò per tre volte nei campi di Zò, e alla quarta l’uomo lo prese. Gli sparò nella pancia, gli strappò la gallina di bocca e poi lo legò a un palo del recinto come avvertimento”), Archy viene cresciuto da una madre che si ritrova a dover procurare da mangiare per la sua cucciolata da sola in pieno inverno.

Arrampicandosi su un albero, mentre cerca di avvicinarsi a un nido, Archy precipita al suolo e si sconcia una zampa. Da quel momento, per una faina zoppa che fa fatica a camminare e a correre, non c’è più posto nella tana di famiglia. Verrà venduto a Solomon, una vecchia volpe che vive in cima a una collina e fa l’usuraio. Fornisce cibo agli altri animali in cambio di leccornie, oggetti, cose preziose che accumula nelle sue stanze segrete. E sarà insieme a lui che, dopo aver attraversato un durissimo apprendistato da schiavo, scoprirà una frontiera sconosciuta ai suoi simili. L’esistenza dello scorrere del tempo, la differenza tra presente, passato e futuro. Soprattutto, l’idea che per tutte le creature della Terra esiste una fine. La morte, il dissolversi di ogni pensiero, di ogni desiderio. Di tutto.

Solo la parola scritta, scoprirà Archy ascoltando Solomon, può salvare una creatura dall’oblio. Il racconto della propria vita affidata a una penna e un foglio di carta. La memoria di quello che si è stati, della propria storia, raccontata come fosse un romanzo. E quando la volpe e la faina si fermano a riflettere su problemi così alieni al mondo animale, prende forma un altro pensiero. Perturbante e consolatorio al tempo stesso: quello del trascendente. Di una figura che tutto sa e tutto destina: Dio.

Al suo primo romanzo, Bernardo Zannoni ha saputo inventare per “I miei stupidi intenti” una storia originale, lucida, spesso tagliente. Sostenuta da una scrittura nervosa, precisa, mai fuori rotta. Ma come si trova a vivere un’avventura così imprevedibile e affascinante a 27 anni? Quando molti suoi coetanei stanno ancora provando a individuare la traiettoria giusta da seguire.

“Non faccio una performance tutti i giorni, io, in prima persona – dice Bernardo Zannoni -. È il mio libro che, con le sue belle gambine, ha cominciato a correre. Tanto che non riesco più a stargli dietro. Io continuo a vivere i miei 27 anni, divertendomi e considerando questa un’ottima occasione anche per giocare. Ricordandomi sempre che non ho progettato un reattore nucleare, ma ho inventato una storia riflettendo su tante cose. Anche importanti”.

Certo, però è pur sempre tra i finalisti del Campiello?

“Se ci penso, ancora adesso, un po’ mi sgomenta e mi terrorizza. Ma mi rende anche profondamente felice. Quindi va bene, cerco di affrontarla con il migliore degli aplomb. Io non indago, preferisco non chiedere, ma il libro ha cominciato a vivere una gran vita ben prima che entrasse tra i cinque finalisti del Campiello“.

Da dove arriva il mondo della faina Archy?

“Avevo 21 anni quando ho cominciato a scrivere questa storia. C’erano tante cose in quel periodo che non riuscivo a esternare. E allora meglio affidarle alle parole, alla narrazione, cosa che ho sempre fatto fin da bambino. Ricordo che affidavo i miei sogni alla carta. Riempivo taccuini, quaderni, con tutte le fantasie che mi passavano per la testa. Una sorta di piccolo rifugio, in cui entravano anche la passione per la musica e per il cinema. Ma la scrittura è sempre stata quella che mi ha aiutato a far quadrare tutto”.

Aveva già l’idea per un romanzo?

“Forse all’inizio mi sono messo lì un po’ a cazzeggiare. Avevo già l’idea del bosco, lo scenario perfetto per far muovere le mie pedine. Mi sembrava che gli animali fossero perfetti per tenere in piedi una trama anche un po’ più complessa. All’inizio la protagonista era una volpe che viveva in un tronco cavo insieme a suo fratello, un tipo un po’ tocco. Lei era una specie di cronista del giornalino del bosco e passava il tempo scrivendo per tirare su i soldi dell’affitto”.

E poi?

“Quando ho cominciato a scrivere mi veniva spontaneo far assumere alla storia una gravità che all’inizio non era affatto voluta. Così, ho provato ad assecondare quella deriva. Mi sono lasciato trasportare dalle parole, dalle frasi. Piano piano è stato come lanciare un sasso giù per un pendio. Io l’ho seguito con lo sguardo e l’ho visto arrivare lontano”.

La volpe, poi, si è trasformata in una faina: perché?

“Non lo so: la volpe mi sembrava un personaggio troppo raccontato. Forse perché è il più blasonato tra gli animali del bosco, le viene attribuita una furbizia che gli altri non hanno. Basterebbe ricordare alcune favole dedicate a lei. La faina, invece, mi sembrava un po’ la sua cugina sfigata, che nessuno conosce e sa bene nemmeno bene come sia fatta. Mi sembrava un personaggio più neutro, così ho pensato: forse posso giocarmela meglio. Mi divertiva l’idea di avere una figura davvero tutta da inventare”.

È riuscito a evitare l’effetto Disney: gli animali non sono controfigure degli umani.

“Fin dalla prima pagina ho deciso di mettere la storia in chiaro. ‘Mio padre morì perché era un ladro’: la prima riga mette già in chiaro l’atmosfera del libro. E poi arrivano freddo, fame, paura, una legge durissima che regola il fatto stesso di sopravvivere. Da subito ho voluto che Archy e gli altri personaggi parlassero senza essere per forza corretti, brillanti, intelligenti. Dicono cose esprimendole con parole molto elementari. Sono mossi dall’istinto. Non ci sono, insomma, le nostre elucubrazioni”.

Fino a quando Archy scopre la scrittura e un possibile trascendente…

“Quando scoprono il concetto della morte, arriva anche il desiderio di affidare alla scrittura il proprio sgomento. E la convinzione che soltanto aggrappandosi alle parole potrà sopravvivere la loro memoria. Si annulla, insomma, l’idea che per il animali non esista passato e futuro, ma solo presente. Il fatto che ci sia una fine, e che nessuno sappia cosa c’è dopo la vita, li spaventa molto. In quel momento, lo sgomento li costringe ad aggrapparsi a qualcosa. Come è stato per noi umani all’alba dei tempi.. E che cosa può consolare più di tutto: l’idea di Dio. L’illusione che ci sia un mondo dopo il mondo, una possibilità di salvezza”.

La scrittura come una clessidra che non si esaurisce mai?

“In effetti le parole hanno qualcosa di immortale. Perché tramandano all’infinito i pensieri, i ricordi. L’essenza stessa di ognuno di noi. L’unico tormento che Archy non può esorcizzare è che anche la carta, nel tempo, si sfalderà. E porterà via con sé, nel suo sgretolarsi, le parole. La memoria, alla fine, è condannata a perdersi”.

Quanto è cambiato il romanzo dall’inizio della prima stesura?

“Più che altro ci sono state delle interruzioni nella scrittura. Ci ho lavorato all’inizio per tre mesi. Poi mi sono fermato perché mi hanno commissionato un documentario su un artista morto molto giovane di Sarzana, dove abito. Quindi ho abbandonato per un po’ il mio gioco della scrittura per dedicarmi a un lavoro retribuito. Alla fine, mi ero dimenticato della storia che stavo scrivendo. E forse non l’avrei più ripresa se mio padre, dopo un anno e mezzo, non mi avesse sfinito a forza di chiedere che la portassi avanti. Probabilmente ha fatto bene, perché sono riuscito a completarla in altri quattro mesi”.

È stato facile pubblicare “I miei stupidi intenti”?

“Con la mia editor ho allungato alcuni passaggi della storia. Perché alcune scene erano raccontate troppo a mitraglia, non concedevano respiro. A Sellerio è piaciuto subito e non l’ho dovuto modificare più di tanto”.

Scrittura, primo grande amore. E il cinema?

“L’aspetto della scrittura che mi affascinava di più, da bambino, è che potevo far leggere a qualcuno le mie storie. E sotto l’occhio di altre persone quei testi diventavano un po’ più reali. Andando avanti a scrivere ho iniziato a suonare la chitarra, scoprendo la forza che ha l’unire la musica alle parole. I miei miti sono Bob Dylan, David Bowie. Il passo successivo è stato lasciarmi affascinare dalle immagini. Ovviamente non sono un regista vero, però mi diverto a scrivere delle sceneggiature. E, poi, convinco gli amici a girare dei corti o a realizzare delle miniserie dove faccio tutto: dirigo, recito, compongo la colonna sonora. Qualche minuscolo risultato è arrivato a livello locale”.

Cosa ascoltava mentre scriveva il suo romanzo?

“La colonna sonora del libro sono i suoni del bosco, lo scorrere dell’acqua di un fiume, i silenzi e i rumori che formano già una musica. Io, invece, ho ascoltato tante colonne sonore: nello scrivere la morte di Solomon mi ha accompagnato la ‘Sarabande’ di ‘Barry Lyndon”, il film di Stanley Kubrick. Per quella di Louise invece ‘Woman of Ireland’, un pezzo bellissimo. Ma anche altri brani musicali tratti da una pellicola di Wes Anderson. Pezzi sempre non cantanti e che mi permettevano di associarli a delle immagini”.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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