• 26/10/2022

Willem Frederik Hermans, il doppio nella “Camera oscura”

Willem Frederik Hermans, il doppio nella “Camera oscura”

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Si può aspettare 64 anni. Per scoprire che uno dei romanzi più importanti, inquieti, esplosivi del ‘900 in Italia non era mai stato tradotto. E che dello stesso autore, l’olandese Willem Frederik Hermans, si era pubblicato assai poco nella nostra lingua: un racconto molto bello, intitolato “La casa vuota”, che Rizzoli-Bur aveva proposto ai lettori nel 2005 nella versione curata da Laura Pignatti. E poi un altro strepitoso romanzo, “Alla fine del sonno”, che Claudia Di Palermo aveva tradotto per Adelphi nel 2014. Tutto qui. Davvero troppo poco, considerando che l’autore neerlandese, morto a Utrecht il 27 aprile del 1995, era riuscito a firmare undici romanzi, sei raccolte di racconti. E poi, saggi, sceneggiature per il teatro, interventi polemici al vetriolo.

Eppure, “La camera oscura di Damocle” è rimasto lì. Confinato nella zona grigia dell’oblio, per quanto riguarda l’editoria italiana. Anche se non è un mistero che Willem Frederik Hermans venga considerato come uno dei tre grandissimi autori di lingua neerlandese del secondo ‘900, insieme a Harry Mulisch, scomparso nel 2010, e all’uomo che ha firmato quel libro immenso che è “Le sere” (tradotto da Fulvio Ferrari nel 2019 per Iperborea: Gerard Reve, morto nel 2006.

Nell’introduzione all’opera omnia di Willem Frederik Hermans, che in Olanda  si sviluppa per 24 volumi, si diceva che l’autore nato a nel 1921 ad Amsterdam “considerò come proprio compito quello di convincere i suoi lettori. Li flagellava con la verità”. Potrebbe essere questa una delle chiavi di lettura de “La camera oscura di Damocle”, che Claudia Di Palermo ha tradotto splendidamente per Iperborea (pagg. 447, euro 19,50). Ma non l’unica, visto che il romanzo si rivela fin dalle prime pagine una delle più potenti riflessioni sulla fragilità identitaria dell’uomo, sull’incerto confine tra la realtà e l’altrove, sulla traballante credibilità dello sguardo, sulla manipolabile precisione della memoria.

Protagonista della “Camera oscura di Damocle” è un uomo che si trova, fin dalla nascita, a gestire il suo essere diverso dai propri simili. Bassissimo di statura, al punto da essere scartato dal servizio militare, una faccia del tutto sproporzionata sulla quale non crescerà mai il benché minimo pelo di barba o baffi, la voce che ricorda quella acuta delle ragazzine, Osewoudt viene messo a dura prova dalla vita fin dai primi anni. È soltanto un bambino quando sua madre ammazza il marito che, si capisce tra le righe, non dev’essere stato un campione di amore coniugale e dedizione alla famiglia. Così, mentre lei viene ricoverata in manicomio,il ragazzino senza padre sarà ospitato a casa dello zio Bart e della zia Fietje. Dove verrà iniziato prestissimo ai piaceri carnali dalla brutta cugina Ria, più vecchia di lui di sette anni, che finirà per sposare. Diventando proprietario della tabaccheria paterna di Voorschoten, una cittadina di provincia.

Una vita qualunque, da uomo senza qualità. Governata da una routine soporifera, da un lavoro di scarso interesse nella rivendita di tabacchi, rimessa a nuovo con i soldi dello zio Bart, dalla gestione di una madre abitata dall’inquietudine e dalla stranezza. E da una moglie che, impallidito il furore erotico, si trasforma in una presenza evanescente e, al tempo stesso, ingombrante. Tutto scorre fino a quando l’Olanda viene invasa dalle truppe del Terzo Reich. E allora, la sera di un giorno qualunque, davanti alla porta del negozio si ferma un camion militare. Da cui spuntano un gruppo di soldati che vogliono rifornirsi di sigarette e sigari. Merce che il proprietario insisterà per offrire loro senza ricevere in cambio un soldo.

Tutto regolare, se tra loro non ci fosse un tenente. Un uomo qualunque che chiede a Osewoudt: “Lei può anche sviluppare e stampare foto, vero?”. Non è tanto la stranezza di una richiesta anomala, avanzata al proprietario di una tabaccheria e non a chi gestisce un negozio di fotografia. Ma a colpire il protagonista è, soprattutto, l’aspetto del militare. Dice di chiamarsi “Dorbeck. Con ck”. Un cognome difficile da scordare, visto che “Io mi chiamo Osewoudt con dt”, replica l’altro. “Allora i nostri nomi si assomigliano”, convengono entrambi. Ma non è solo quello. Il tenente è perfettamente uguale all’uomo che gli sta di fronte. L’unica differenza è che lui non è stato scartato dal servizio militare perché “mi sono allungato il più possibile”. E poi ha i capelli neri, contro quelli biondi di Osewoudt, e peli sulla faccia. Perfino la voce squilla difforme, “sonora come una campana di bronzo”.

Un perfetto doppio, insomma. “Come un negativo di una foto è uguale al positivo”. O, come commenterà la moglie Ria con malcelato sarcasmo, “come un budino riuscito bene assomiglia a un budino malriuscito”. Una replica vivente che, da quel giorno, arruolerà Osewoudt nella resistenza olandese antinazista. Affidando al protagonista del romanzo compiti decisamente importanti e drammatici. Come quello di trasformarsi in uno spietato sicario pronto a eliminare persone che si sono messe al servizio dei nazisti. Facendogli compiere gesti che prevedono coraggio, sangue freddo, assoluta assenza di scrupoli morali. Perché ogni atto violento avviene quasi fosse lo stesso Dorbeck a telecomandarlo. In una sorta di veglia ipnotica. In uno stato alterato di obbedienza acritica ai comandi di un uomo che conosce appena. Ma che incarna l’altro-da-sé capace di prendere la vita per il bavero per costringerla ad assecondarlo in tutte le sue decisioni.

Prende forma da lì, da quel pirandelliano “giuoco delle parti”, una discesa nella vertigine degli anni ingarbugliati e terribili vissuti dall’Olanda sotto il pugno di ferro delle truppe tedesche. Willem Frederik Hermans trascina il suo Osewoudt in un turbine di cambi d’abito e di identità di incontri con presunti amici e ambigui nemici, di arresti e torture, di omicidi compiuti illudendosi di servire il bene e efferati delitti perpetrati nella zona grigia della malvagità. Fino a traghettare il protagonista della “Camera oscura di Damocle” nella caligine morale dell’immediato dopoguerra. Dove le certezze diventano traballanti interrogativi. E dove un uomo che, fino al giorno prima si era immaginato acclamato come un eroe, dovrà andare incontro a un oscuro destino. Anche perché “l’altro”, il patriota Dorbeck a capo della resistenza, sembra non essere mai esistito.

Willem Frederik Hermans non temeva di attirare su di sé i fulmini dei benpensanti: lo ricorda anche Cees Nooteboom nella sua bella postfazione al romanzo. Si sa, infatti, che lo scrittore non esitò ad andare in rotta di collisione con i suoi colleghi professori universitari. Che non fece un passo indietro dopo essere stato dichiarato “persona non grata” per un suo viaggio nel Sudafrica dell’apartheid. Perché lui ricordava a tutti di essere sposato con una donna dalla pelle scura. E che, poi, lo scrittore di Amsterdam ebbe un ruolo chiave nel caso Weinreb, smascherando un impostore ebreo che affermava di avere combattuto nella resistenza, e di avere aiutato altri ebrei durante l’occupazione nazista dell’Olanda.

Per questo non sorprende che “La camera oscura di Damocle” racconti con assoluta libertà gli anni oscuri e ambigui della guerra e dell’invasione tedesca. Senza mai rifugiarsi in comodi luoghi comuni, che avrebbero attirato su Willem Frederik Hermans la simpatia di chi vive di falsi miti costruiti su traballanti fonti storiche. Tanto che lo scrittore non ha tentennato nel descrivere la resistenza ai nazisti come una confusa rete di persone senza un piano preciso. Condannate loro stesse a farsi governare dal caos.

Ma “La camera oscura di Damocle” è molto di più. È un pirotecnico romanzo sull’incertezza dell’identità, sull’assoluta fragilità dell’io, sulla zoppicante distinzione manichea tra Bene e Male. È un libro sostenuto dalla forza propulsiva di dialoghi fulminanti, che porta chi legge a riflettere su quanto sia distante l’immagine che Osewoudt (e di conseguenza tutti quelli che entrano nel groviglio di storie della sua vita) percepisce di sé, soprattutto quando si vede riflesso alla specchio, da quella fissata sulla pellicola della sua Leica. È un viaggio nel tenebroso e affascinante dubbio se mai possa esistere, nello stesso tempo del nostro vivere, una replica, un altro essere esattamente uguale a noi. Capace di fare quello che noi stessi sappiamo di voler evitare.

Il romanzo di Willem Frederik Hermans è una riflessione potente, controcorrente, perturbante, eppure capace di concedersi il lusso dell’ironia e la fantastica possibilità di scivolare in un grottesco mai sopra le righe, su quanto gli orrori del secolo breve hanno reso polverosi e lontani i faccia a faccia con il proprio lato oscuro raccontati da scrittori come Louis Stevenson ne “Lo strano caso del dottor Jekyll e mister Hyde” e da Oscar Wilde nel “Ritratto di Dorian Gray”. Perché dopo il massacro di due guerre mondiali, dopo la follia dell’Olocausto, rimane una sola via per esplorare il confine sottile tra Bene e Male: armandosi di uno sguardo che non arretra nemmeno di fronte all’indicibile.

Libro di una modernità assoluta, nonostante sia stato pubblicato nel lontano 1958, “La camera oscura di Damocle” si chiude con una profezia più raggelante ancora di quella che Italo Svevo affidava al finale de “La coscienza di Zeno”. Perché Willem Frederik Hermans fa dire a uno dei personaggi che “così come noi non crediamo più alle streghe e i tabù sessuali spariscono, con la stessa naturalezza i nostri pronipoti assisteranno con grande serenità e totale indifferenza a cose che oggi fanno rabbrividire la massa di elettori e contribuenti”. Noi, figli del 2022 che leggiamo oggi quelle righe, sappiamo bene che quel tempo è già arrivato.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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