• 20/10/2017

L’alfabeto delle emozioni nella musica di Colleen

L’alfabeto delle emozioni nella musica di Colleen

L’alfabeto delle emozioni nella musica di Colleen 819 616 alemezlo
Quanto pesa un cuore, con tutte le sue emozioni. E quanto difficile può essere provare a mettere assieme un alfabeto dell’anima. Perché non si riesce quasi mai a trasformare le proprie sensazioni, i pensieri che galleggiano tra la ragione e la fantasia, in qualcosa di concreto. in parole, suoni, segni. A meno di non inventarsi un ponte arditissimo che sappia valicare i territori della creatività per raggiungere quelli della tecnologia. Come ha fatto Colleen, una delle musiciste più interessanti, difficili da inquadrare, coraggiose e innovative, che si possano trovare nel mare immenso della produzione discografica.

Giovane ma non troppo, carina senza rischiare di offuscare il proprio lavoro con un’eccessiva avvenenza, francese, arrivata alla musica da autodidatta, Cécile Schott, in arte Colleen, ha capito presto che non le interessava molto stare dentro un mondo di creatività dove o sei pop, o sei rock, oppure aspiri a entrare nei sacri recinti della classica. A lei interessava, fin dal primo disco, far capire che si può galleggiare dentro un mondo di note ed emozioni senza tirare su un muro invalicabile. Senza accontentarsi di vivere rinchiusi dietro un’etichetta. Per sentirsi poi dire: “Ma questa volta ti sei allontanata dal tuo genere di musica”
Così, fin dal debutto discografico, Colleen ha messo bene in chiaro che lei voleva fare dischi portando i suoi computer, i suoi loop, le diavolerie tecnologiche che le capitavano tra le mani, a dialogare con quello straordinario strumento che è la viola da gamba. Ma anche con il violoncello, la spinetta, il clarinetto, l’arpa. E la chitarra classica, quella che ha iniziato a suonare per prima.
Depistare, meravigliare, continuare a sperimentare sembrano essere le coordinate imprescindibili di Colleen. E se nell’album di debutto, “Everyone alive wants answers” del 2003 ha fatto convivere i suoi loop elettronici con le citazioni degli album che aveva più ascoltato e amato, già con “The golden morning breaks” del 2005 e soprattutto con “Les ondes silencieuses” del 2007, si è mossa verso i territori di una contaminazione selvaggia, intelligente e profonda, che riesce a far suonare benissimo assieme reminiscenze della musica classica medievale e ardite sperimentazioni elettroniche. Per intendersi, come se la Penguin Cafè Orchestra accettasse di fare una session con smanettoni come Autechre o inarrivabili sperimentatori come Terry Riley. Passando per l’Africa e la Giamaica.
Adesso, Colleen va un posso ancora più in là. Perché nel suo album nuovissimo “A flame my love, a frequency”, disponibile dal 20 ottobre, dimostra di avere imparato a sillabare l’alfabeto dell’anima. Correndo veloce su un percorso fatto di otto brani, per il totale di 43 minuti, in cui le suggestioni di certo minimalismo alla Philip Glass si concedono una coloratissima fuga dentro il suono ripetuto fino all’ossessione. Ma attenzione, non si creda che il disco suoni cupo, ossessivo. Anzi, Colleen prova a spalancare, con i suoni alieni della sua viola da gamba, e di tutta la strumentazione digitale che le è capitata a trio, le porte della percezione. Dove la voce diventa il manuale d’istruzione dello spirito guida.
Adagiarsi sul suono di brani come “November”, “Another worlds”, “The stars vs.creatures”, “One warm spark”, significa essere disposti a farsi cullare da onde gravitazionali compresse dentro le tracce di un disco. Come se i sistemi solari più lontani dal nostro cominciassero a dialogare usando un linguaggio a noi del tutto sconosciuto, ma in realtà perfettamente comprensibile.
Però attenzione: è facile imbarcarsi sulla navicella interstellare di Colleen. E, all’inizio, sembra semplicissimo sottrarsi al fascino arcano della musica di questa straordinaria incantatrice. Al terzo ascolto, però, gli ancoraggi al mondo reale sono soltanto un lontano ricordo. Ed è lì che inizia il vero viaggio. Verso dove?

<Alessandro Mezzena Lona

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