• 15/01/2018

Armando Iannucci, una risata seppellirà anche Stalin

Armando Iannucci, una risata seppellirà anche Stalin

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Voleva fare il prete. Sì, proprio nella Chiesa cattolica. Poi, per fortuna, Armando Iannucci ha risposto al richiamo di una vocazione più forte: quella del teatro. E da lì, il passo verso il primo lungometraggio, “In the loop” premiato nel 2010 al Sundance Film Festival, è stato breve. Adesso, il regista scozzese di padre napoletano si conferma uno dei registi più interessanti nel cinema del mondo anglosassone portando anche in Italia il suo gioiellino del 2017: “Morto Stalin se ne fa un altro”. Una documentatissima, esilarante demolizione del concetto di Potere. Una pellicola che farà felici sia i cultori dei film storici, raccontati senza troppe pedanterie, sia chi ha sempre ammirato la comicità intelligente e surreale dei Monty Python.

Per raccontare l’Unione Sovietica che, all’improvviso, si scopre orfana di Stalin, Armando Iannucci è partito da una graphic novel: “La morte di Stalin” dello sceneggiatore francese Fabien Nury e del disegnatore Thierry Robin, che è stata ristampata da Mondadori Comics proprio in occasione dell’uscita del film in Italia. Ha chiamato attorno a sé attori fidati e di indiscusso carisma, come Steve Buscemi (nei panni di Nikita Kruščev), Simon Russell Beale (a cui tocca il ruolo del sanguinario ministro, con pulsioni pedofile, Lavrentij Berija) lo stesso Michael Palin dei Monty Phyton (che rende indimenticabile un codardo e dogmatico Vjačeslav Molotov), lo strepitoso Jeffrey Tambor (capace di trasformare il pusillanime Georgj Malenkov nell’incarnazione stessa di un Potere ebete, incosciente e velleitario quanto pericolosissimo). E ha costruito insieme a loro una divertentissima parabola sugli ultimi giorni del Piccolo Padre dell’Urss e delle grottesche, inquietanti e sanguinarie manovre all’interno del Comitato centrale del Partito comunista per stabilire chi sarebbe stato il suoi successore: “Morto Stalin se ne fa un altro”, appunto.

La plumbea Mosca del 1953 si risveglia da sogni inquieti, dopo una notte di arresti ed esecuzioni contro i “nemici del popolo” messi a segno dall’Nkvd, la polizia segreta guidata ministro degli affari interni Berija. Tra capo e collo le arriva la notizia, tenuta segreta per oltre 24 ore , che Iosif Vissarionovič Dzugašvili, da tutto il mondo conosciuto semplicemente come Stalin, non c’è più. Un’emorragia cerebrale ha fermato il suo cuore per sempre. E lui, quel dispotico, sanguinario cowboy che Iannucci racconta come un grande appassionato di cinema e musica, sempre pronto a eliminare chiunque osasse fare ombra allo smisurato culto di se stesso, lascia l’Unione Sovietica in un bel guaio. Perché, attorno a sé, aveva tollerato solo piccoli uomini. Funzionari di partito codardi, mezze cartucce capaci  di ripetere all’infinito la vuota, egocentrica retorica imposta dall’erede di Lenin.

Attorno alla salma di Stalin, e poi nelle segrete stanze del Cremlino, comincia un folle minuetto per assicurarsi  la simpatia dei figli di Stalin: la dolce e fragile Svetlana, lo psicopatico e alcolico Vassilij. E da subito, il codardo Malenkov si rivela solo un utile idiota, posto a capo del Comitato centrale del Pcus in attesa di essere spazzato via dal vero successore del Piccolo Padre. Poi, si fa sempre più chiara la strategia vincente dell’impacciato, eppure astuto, Kruščev, che trova la soluzione giusta per eliminare definitivamente l’avversario più pericoloso: il sanguinario Berija. Come? Rinfacciandogli tutti gli errori commessi nel nome di Stalin, dalle massicce epurazioni di veri o presunti dissidenti alle stomachevoli violenze carnali nei confronti di bambine e ragazzine. Spesso figlie e parenti delle persone messe sotto arresto. Ma, a volte, reclutate dai suoi fedelissimi agenti segreti in certe folli notti passate a fare la ronda per le vie di Mosca per trovare i “bocconcini” giusti a deliziare il palato del ministro.

Finirà nel sangue, come ogni faida di Potere. Ma Iannucci è bravo a raccontare le tragedie dell’Urss con grande precisione storica e altrettanta, implacabile ironia. Quando costruisce le riunioni del Comitato centrale del Pcus spiando le paure, le incertezze, le follie di un gruppo di dirigenti rimasti ortani per sempre, incapaci di gestire l’ingombrante assenza di Stalin, eppure convintissimi che quella è un’occasione irripetibile per chiunque di loro. Quando trasforma il funerale del Capo in una folle sequenza di sciocchezze, errori, trame sotterranee, destinate poi a colpire soprattutto il popolo inerme. Quando mette in scena la spaventosa forza di persuasione del Potere, anche in assenza del suo leader, che continua a risciacquare la mente delle persone sotto l’impulso della paura. Quando, infine, trasforma le risate, i sorrisi, in un ghigno di disgusto nel momento in cui fa capire che morto Stalin, morto Berija, niente sarebbe cambiato per davvero. Perché alle spalle dell’abile Kruščev , protagonista di un timido “disgelo” nella politica dispotica nella via russa al comunismo, c’era già in agguato un nuovo pretendente: l’imperscrutabile, granitico Leonid Breznev.

I buoni, in questa commedia nera, hanno il volto del generalissimo Georgij Zukov (il massiccio Jason Isaacs). Una sorta di supereroe sovietico con il petto ripieno di medaglie al valore. Un militare per tutte le stagioni, capace di tenere testa al Terzo Reich con la sua Armata Rossa, che accetta di fare fuori l’orrido Berija solo per vedere così svanire l’illimitato potere degli odiati uomini dell’Nkvd. Ma nella farsa del dopo-Stalin non esiste un confine reale tra il Bene e il Male. Non c’è nel film di Iannucci, e nemmeno nella realtà. Perché chi comanda, si chiami Stalin o Kruščev, Putin o Trump, fa sempre solo il suo interesse. Pronto a lasciare uno spazio vitale minimo solo a chi saprà inchinarsi ai suoi folli dogmi.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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