• 03/03/2018

Pupi Avati, un delitto del diavolo (probabilmente)

Pupi Avati, un delitto del diavolo (probabilmente)

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Pupi Avati è una miniera di sorprese. Inesauribile. Qualcuno pensava di poterlo liquidare alla voce jazz. Poi è arrivato lo sceneggiatore, il regista, il produttore, che ha lasciato un segno forte sul cinema. Basterebbe ricordare che, dietro “Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini c’è tutto il suo talento di scrittore, anche se il nome non risulta ufficialmente accreditato. Ma che fosse anche un bravo narratore, uno, insomma, capace di costruire libri, trame, storie che sanno prendere il lettore e tirarlo dentro le pagine fino all’ultima riga, parecchi dei suoi estimatori lo ignoravano. Anche se, nel 2013, aveva regalato un piccolo assaggio delle sue doti di affabulatore con la bellissima autobiografia “La grande invenzione”, pubblicata da Rizzoli.

Ma lì, i soliti scettici tendevano a scantonare. Appellandosi al fatto che, in fondo, Pupi Avati non aveva fatto altro che raccontare la propria vita. Sbagliavano, ovviamente. Perché il regista di “Jazz band”, “La casa dalle finestre che ridono”, “Regalo di Natale, “Impiegati”, ha aspettato solo un paio d’anni per pubblicare il suo primo, ottimo romanzo, “Il ragazzo in soffitta”. Una storia nera di adolescenza e imbarazzanti segreti di famiglia, ambientata tra Bologna e Trieste, irrobustita da un fascino oscuro e malinconico. Ma al tempo stesso umanissima, ben costruita e ben raccontata, limpida e perturbante. Nel 2016 in coppia con Roberto Gandus, lo sceneggiatore di “Tony Arzenta”, “Macabro”, “Malamore”, “La fine dei giochi”, ha voluto calarsi negli oscuri misteri della Sicilia di fine ‘700 con “La casa delle signore buie”. Dimostrando a tutti che la sua capacità di inventare, per il grande schermo, piccoli gioielli dal sapore gotico, come “Zeder” o “L’arcano incantatore”, non era soltanto una transitoria infatuazione.

Ma adesso, tutti quelli che amano e ammirano Pupi Avati avranno aperto (o apriranno forse tra un po’) con emozione e inquietudine il suo nuovo romanzo. Perché l’opera seconda, si sa, è sempre quella più difficile da scrivere. Visto che, se hai fatto un buon lavoro al debutto, non ti verrà perdonata la minima incertezza, neanche una frase balbettante o qualche calo di tensione nella storia.

Ebbene, “Il signor diavolo”, pubblicato da Guanda (pagg. 202, euro 16) come “Il ragazzo in soffitta”, è la conferma che Pupi Avati, magari solo per un po’, potrebbe lasciar perdere il cinema. Per dedicarsi interamente alla scrittura. Ambientato nell’Italia tormentata e misera degli anni Cinquanta, il nuovo romanzo porta in scena un delitto strano e feroce. Una sorta di resa dei conti tra ragazzini, nel cattolicissimo Veneto dove la Democrazia Cristiana regnava indisturbata. Dove Furio Momentè, il classico inetto che è riuscito a entrare al ministero di Grazia e Giustizia grazie alle potenti raccomandazioni di un sottosegretario che gestisce il potere come fosse in missione per conto di Dio, viene spedito per cercare di raddrizzare l’andamento delle indagini. Visto che il giudice istruttore Marino Malchionda, che se n’è occupato finora, sembra motivato a portare a galla il ruolo nodale, e imbarazzante, della Chiesa nella vicenda. Con quel suo voler diffondere un oscurantismo degno dei secoli più bui. Con quel raggelante strumento di controllo della povera gente che è la diffusione delle superstizioni.

Per Furio Momentè, quella missione lontano da Roma, la sua prima, vuol dire tantissimo. Perché il sottosegretario gli regala la possibilità di riscattare, in un solo colpo, tutte le meschinità collezionate nella sua ancor breve vita. Per esempio, un matrimonio squallido con la bellissima, amata Laura, che ha convinto a prostituirsi per poter ripagare una serie di debiti. Ma fin da quando approda in una Venezia decaduta e indolente, il funzionario si rende conto che, per lui, quel caso potrebbe rivelarsi una trappola. Perché l’autore del delitto è un ragazzino, Carlo Mongiorgi, figlio di povera gente che vive a Lio Piccolo, un paesino del comune di Cavallino Treporti. Dove la Pianura Padana si fa palude, dove la piena del grande fiume ha violato perfino i cimiteri, portando a spasso sul pelo dell’acqua i morti con tutte le bare.

Carlo racconta una storia strana. Dice al giudice istruttore, infatti, di avere ammazzato un suo coetaneo per vendetta. Il problema è che Emilio Vestri Musy, la vittima, viene da una famiglia di nobili, che ha sempre cercato di coprire la sua bestiale ferocia. Il sacrestano della chiesa, insieme a una suora conversa, raccontano che lui avrebbe fatto fuori la sorellina adottiva a morsi. Comn demoniaca brutalità. Perché dentro il corpo sgraziato di quell’infelice adolescente avrebbe preso albergo il Male. Sì, proprio lui, il diavolo probabilmente. E Carlo Mongiorgi dice di avere le prove.

Quali? È presto detto: il suo amico Paolino Osti è morto di malattia quando si è permesso di affrontare a brutto muso proprio Emilio. E Carlo, che non poteva nemmeno immaginare di vivere senza il suo unico compagno di giochi, ha ascoltato lo sciagurato patto che gli proponeva Vestri Musy. Se lui avesse buttato l’ostia consacrata della Prima comunione nella brodaglia che ogni giorno veniva data in pasto al gigantesco verro da monta, un maiale di oltre 200 chili, il povero Paolino sarebbe tornato dal mondo dei morti. Per fargli compagnia per sempre.

Ma giocare con le tenebre può rivelarsi una pessima idea. E quando Carlo decide di vendicarsi di Emilio, centrandolo in testa con un ciotolo nero scagliato dalla fionda di Paolino, la storia spalanca la porta alle ombre più buie che abitano i racconti sussurrati a mezza voce in paese. E il diavolo prende forma nel corpo sgraziato di un ragazzino, nella mole immensa di un maiale, nell’ambiguo comportamento della suora conversa e del sacrestano. Tanto che Furio Momentè, sforzandosi di trovare una risposta all’intricata ragnatela di domande, rischia di perdere anche se stesso.

Costruito su immaginari faldoni della fase istruttoria, giocato su un serrato faccia a faccia tra il giudice, che si aggrappa ostinatamente alla ragione, e il ragazzino Carlo, che invece diventa messaggero delle più tenebrose superstizioni, “Il signor diavolo” non è solo un riuscitissimo “gotico maggiore” all’italiana, come recita il sottotitolo, disperso nell’eterna, immutabile provincia italiana. Perché Pupi Avati sa dare a questa inquieta, e inquietante, storia anche il compito di raccontare come sia sempre il Potere, minuscolo o immenso, a dettare le linee giuda nella vita della povera gente. Tanto che Furio Momentè, arrivato a Venezia per essere strumento della manipolazione di un processo che non deve assolutamente creare imbarazzo alla Chiesa cattolica, finisce per diventare lui stesso marionetta manovrata dal ministero di Grazie e Giustizia. Utile idiota nella mani del potente sottosegretario. Povera cosa da usare e gettare nelle fauci della vita, dell’ignoto, non appena il suo compito di fedelissimo servo sciocco si sarà esaurito.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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