• 18/03/2018

David Szalay: “Per capire la vita la devi raccontare”

David Szalay: “Per capire la vita la devi raccontare”

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La vita non ha un libretto di istruzioni per l’uso. Ognuno deve cercare la propria via, con coraggio, timore, incertezza, incoscienza. E tante volte, guardando una accanto all’altra queste imperfette prove di comprensione, di interpretazione, del tempo che ci è dato consumare, salta fuori un ritratto appassionante e sconcertante. Come quello che David Szalay ha messo assieme nel suo libro “Tutto quello che è un uomo”. Decisamente una delle sorprese editoriali del 2017. Un romanzo fatto di racconti che ha saputo attirare l’attenzione anche dei lettori più sospettosi.

Nove storie, in apparenza slegate tra loro, formato “Tutto quello che è un uomo”, tradotto da Anna Rusconi per Adelphi (pagg. 402, euro 22), di cui abbiamo parlato alcuni mesi fa in questo blog. Nove destini di uomini, adolescenti e maturi, giovani e vecchi, illusi di conoscere ormai tutto della vita e ancora aperti a qualsiasi tipo di esperienza. Ma, soprattutto, in gara frenetica con lo scorrere del tempo. Perché quello che David Szalay vuole raccontare è soprattutto la ricerca di un proprio centro di gravità, nello spazio di un Europa tormentata da troppe divisioni e dubbi, e in un millennio che spesso sembra navigare a vista. Un punto fermo che si allontana di continuo, anche se magari è lì, a portata di mano.

E se Simon e Ferdinand cercano un senso alla propria giovinezza in una Cracovia dove le intermittenze del cuore, e dei richiami erotici, finiranno per creare tra loro una distanza abissale, Tony prova a rimettere assieme le tessere del disordinato mosaico della sua vita. Quando il tempo sembra ormai scaduto. In mezzo stanno forzuti palestrati dal cuore tenero che finiscono per cacciarsi nei guai, amanti che non sanno più trovare il filo del loro dialogo davanti alla possibile nascita di una nuova vita, giovani in cerca di sesso facile che si ritrovano a fare gli oggetti erotici di madri e figlie pronte a rientrare, a fine vacanza, nel loro collaudato ruolo di inappuntabili borghesi. Tutto questo in un intreccio di storie, nell’Europa dalle mille anime, e dalle mille contraddizioni, distesa tra la Croazia e la Svizzera, dalla Grecia alle Fiancre, dove il senso della vita lo trovi nello scorrere nel tempo. E nelle esperienze che quel tempo concede di vivere.

“Il mio libro, in realtà, è partito dal racconto numero tre – spiega David Szalay, invitato a Roma nell’ambito del Festival Libri Come, che è approdato alla nona edizione all’Auditorium Parco della Musica con la cura di Marino Sinibaldi, Michele De Mieri e Rosa Polacco -, quello che ruota attorno ai personaggi di Emma, Gábor e Bálazs. Ma non è che la storia ha dettato, poi, il resto. Anzi, era nata per essere singola, tanto che l’ho pubblicata in una rivista in Inghilterra. Devo dire che mi aveva convinto subito la lunghezza richiesta dalla redazione: né troppo lunga né troppo corta. Mi imponeva il compito di concentrarmi esclusivamente sul presente delle figure che descrivevo, senza andare a scavare a ritroso nella loro vita”.

Poi sono arrivate le altre storie?

“Sì, ho cercato di immaginare una serie di racconti della stessa lunghezza, con la medesima struttura. E mi sono messo a immaginare di farli interagire tra loro. Per mettere assieme un libro che fosse qualcosa di più della somma delle singole parti”.

Per questo preferisce chiamarlo romanzo e non raccolta di racconti?

“Proprio così. Per l’unico racconto concepito per essere singolo, autoconclusivo, è proprio quello. Il terzo. Gli altri li ho concepiti e scritti per fare parte di un’unica struttura. Ed è per questo il libro dev’essere visto come un romanzo vero e proprio, composto da tante storie. Credo che nessuna di queste funzionerebbe veramente se la separassimo dalle altre”.

Il titolo ruota attorno alla parola uomo, ma è il tempo la spina dorsale del libro?

“Il tempo è il tema dominante del libro, non c’è dubbio. Quello della mascolinità è solo un concetto a cui ho pensato in seguito, mentre scrivevo. La struttura stessa che ho voluto dare al mio romanzo mi permette di esplorare il trascorrere del tempo, l’invecchiamento, la certezza che siamo mortali. Inevitabilmente, poi, entra nell’orizzonte delle storie anche l’uomo, il maschio, su cui negli ultimi tempi ci siamo trovati a ragionare molto”.

Tutti uomini i suoi personaggi?

“Nove protagonisti, un unico personaggio. Certo, è voluto, perché questo uomo al centro del mio libro è sempre la stessa persona, raccontata nelle sue molte sfaccettature. È come se vivessero la medesima vita, perché devono affrontare una serie di esperienze universali, che molti di noi condividono”.

L’Europa, l’essere parte di un progetto comune, è presente nella struttura stessa del suo libro?

“Sono nato in Canada, ma lì mi sono fermato soltanto un anno. Mio padre è ungherese, mia madre è per metà britannica per metà canadese. Questo fa sì che la mia identità non sia legata a un singolo Paese. E mi porta ad avere un senso della nazionalità un po’ più complesso rispetto alla maggior parte delle persone. Credo sia anche questo che mi spinge ad apprezzare l’idea di un’Europa unita, senza confini. Il fatto di avere vissuto in tanti luoghi diversi, il piacere di superare l’idea stretta di appartenenza a una nazione”.

Quando si è scoperto narratore?

“Quand’ero bambino. Scrivere era proprio un grande piacere personale. Poi, quando frequentavo le scuole superiori e l’università, mi sono dedicato anche a un altro tipo di linguaggio narrativo: quello delle pièce teatrali. Ma dovevo fermarmi per ricominciare. Infatti, per otto anni ho lasciato stare per rimettermi a scrivere attorno ai trent’anni. Credo che quel periodo di silenzio sia stato molto utile per crearmi delle basi nella vita. Per permettermi, poi, di dedicarmi seriamente alla letteratura”.

Prima di “Tutto quello che è un uomo” ha pubblicato altri tre romanzi. Com’erano?

“Erano dei romanzi nel senso classico del termine. Non strutturati, però, come l’ultimo. Tutti ambientati nella Londra contemporanea. Ecco, posso dire che c’erano già alcuni dei temi che ho sviluppato poi”.

Difficile essere scrittore in un tempo in cui il mercato sforna e brucia i libri a una velocità pazzesca?

“Siamo in un periodo storico in cui la lettura dei libri è sotto attacco Ci sono molte altre forme di intrattenimento. Proposte per passare il proprio tempo libero più accattivanti, meno impegnative. La scrittura fa fatica a sostenere la concorrenza di altre tipi di narrazione: il cinema, la tivù. E allora, per giustificare, valorizzare l’uso della parola come mezzo di comunicazione, bisogna che gli scrittori facciano l’impossibile per creare libri, storie, che siano più belle di quelle proposte da altri media”.

Pur senza provare complessi di superiorità…

“Apprezzo molto il cinema, la televisione. Penso a certe serie che stanno dimostrando come si possa produrre ottima narrazione anche con le immagini. Ma proprio per questo la letteratura deve fare in maniera perfetta quello che sa fare da tanto tempo. Raccontare, cioè, storie, che siano migliori di quelle proposte da altri mezzi espressivi”.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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