• 16/04/2018

Starcontrol, “Fragments” di un viaggio dentro se stessi

Starcontrol, “Fragments” di un viaggio dentro se stessi

Starcontrol, “Fragments” di un viaggio dentro se stessi 1024 612 alemezlo
Dici new wave e pensi subito a dei replicanti. Cloni perfetti, o quasi, dei Joy Division. Se aggiungi la parola post-punk, magari condita da riflessi dark e tentazioni gorhic, ti vengono subito in mente The Cure e tutta quella scena musicale che ha saputo portare dentro la musica rock il richiamo irresistibile di atmosfere malinconiche. Suoni ruvidi che, però, sono riusciti a triovare la via per cantare dalle parti del cuore. Una visione del mondo completamente fuori rotta, un giudizio assai critico sul presente. Poi arrivano loro, gli Starcontrol. Tre ragazzi cresciuti dalle parti di Milano che non fanno mistero di aver ascoltato, amato, memorizzato, digerito i dischi più belli degli Eighties.

E fino a qui è difficile entusiasmarsi. Anche perché di cloni, in giro per il mondo, ce ne sono fin troppi. Ma bastano poche parole, una manciata di canzoni per innamorarsi della musica degli Starcontrol. Che loro stresso descrivono così con poetica, astuta, antiretorica convinzione: “Siamo la malinconia di un pomeriggio d’estate infinito e sospeso nel blu, un’impellenza punk procrastinata per l’ora del tè, un ricordo di notti passate a rubare pannocchie con gli amici, il male di vivere che ti siede di fronte in una stanza vuota alla luce di una lampadina, il tentativo di riportare indietro le cose perdute, una speranza”.

E se ancora non basta, si può prendere a prestito la definizione che loro stessi hanno dato della musica che suonano: spleen wave. Come dire, siamo gli eredi della new wave, ma vi facciamo presente che le nostre canzoni nascono sempre dentro il territorio di quello che Charles Baudelaire definiva nei “Fiori del male” lo spleen. Uno stato di malinconia permanente, da cui prendono forma cristalli purissimi di suono. Basta ascoltare il primo album della band, “Fragments” inciso per Costello’s di Simone Castello, per capire quanto il cantante Davide Di Sciascio, la bassista Laura Casiraghi, che è anche seconda voce, e il chitarrista-tastierista Moreno Zorzetto, siano capaci di distillare brani dal fascino limpido e oscuro al tempo stesso.

Sarebbe facile liquidare gli Starcontrol come ottimi allievi di Joy Division e The Cure. Anche perché loro stessi ammettono che “sono le uniche due band che ci mettono d’accordo”. Visto che, poi, ognuno di loro dichiara di essere cresciuto ascoltando Radiohead e heavy metal, punk e grunge. Insomma, di tutto e di più. Ma è proprio questo non sentirsi eredi, o epigoni, di nessuno, questa voglia di andare oltre, di creare un suono che dichiari le sue origini senza fermarsi alla citazione esplicita, che rende le canzoni di “Fragments” originali e belle. Dieci brani, tutti cantati in inglese, per 44 minuti di musica. Un viaggio al di là dei confini della banalità, del quotidiano adattarsi a un mondo normalizzato. Il desiderio di esplorare gli spazi interiori per mezzo dell’espressione artistica.

Dopo un paio di ep di riscaldamento e di affiatamento, gli Starcontrol hanno affrontato la sfida del primo album con le idee ben chiare in testa. Lo dimostra il fatto che “Fragments” suona compatto, ispirato, lanciato sulla sua strada come una locomotiva a tutto vapore. Per nulla abbandonato alle onde di una creatività ora intensa, ma poco dopo più flebile. Tanto che risulta difficile indicare i brani migliore e quelli più deboli.

Si parte subito da una tiratissima “A cruel day”, con gli arpeggi di chitarra e basso a creare un tappeto sonoro emozionale. Perfetta, poi, la scelta canora di Davide di Sciascio che sceglie sempre tonalità morbide nella voce. Senza dimenticarsi, però, di arrampicarsi sulle pareti verticali delle note quando i testi e le melodie lo reclamano. “Rooms with no view” parte da un intro di batteria tirato per aprire, poi, la porta a un’illuminazione sinfonica, contrappuntata dal canto che sembra provenire da un fragoroso silenzio. “First love is dead” accelera il ritmo, si affida al virtuosismo dei tre musicisti che hanno voluto rend nel nome a un videogioco degli anni ’90 basato sull’esplorazione dello spazio profondo.

E se al centro dell’album brani come “What remains”, “Half a picture”, tendono a raffreddare l’atmosfera, a chiudere lo sguardo dentro lo spazio interiore, con “Humans”, dove il canto si lascia portare via dall’emozionante incalzare del ritmo, si corre veloci verso la parte finale di “Fragments”. Risplendono gemme grezze come “Among the torns”, la pensosa “Snow on the lake”, “Waves of grass”, prima di congedarsi con una sfolgorante “Newton’s third law”. Là le intermittenze del cuore devono attraversare in punta di piedi il territorio impalpabile del sogno. Lasciandosi cullare dalla convinzione che, in fondo, è proprio il saper guardare senza paura dentro l’abisso della malinconia ad avvicinare un po’ di più alla felicità.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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