• 05/05/2018

Andreï Makine: “La vera rivoluzione? È spirituale”

Andreï Makine: “La vera rivoluzione? È spirituale”

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Andreï Makine non scrive per regalare false illusioni. Né ai lettori, né ai personaggi dei libri che da tanti anni pubblica in francese. Perché lui, il narratore di Krasnojarsk, il fallimento delle rivoluzioni, l’imbarbarimento di uno Stato che sognava di costruire un mondo giusto, fatto di persone libere e uguali, l’ha visto da vicino. Nato in Siberia, cresciuto nell’Unione Sovietica uscita ferita, devastata ma vincente dalla Seconda guerra mondiale, da molti anni residente in Francia, dove è entrato a far parte dell’Académie Française, l’autore del “Testamento francese”, “L’amore umano”, “La musica di una vita”, ha ascoltato i racconti dei sopravvissuti ai gulag, ha vissuto con loro lo sgomento di chi viene spezzato da un Potere inflessibile e inumano. Si è avvicinato alla letteratura, passando dalla poesia, anche per dire che l’uomo può sognare nuovi orizzonti solo se crede in se stesso.

Per questo, i personaggi di Andreï Makine sono alla ricerca continua di un’altra via. In un vagabondare senza sosta. Come Pavel Gartsev, il protagonista de “L’arcipelago della nuova vita”, romanzo tradotto da Vincenzo Vega per La nave di Teseo (pagg. 235, euro 20). Un soldato richiamato in servizio agli estremi confini orientali della Russia, per dare la caccia a un uomo in fuga da un campo di prigionia. Orfano fin da bambino, cresciuto nell’Urss di Stalin nel clima di paura e violenza degli anni della Seconda guerra mondiale, si accorge ben presto di provare sentimento di pena e solidarietà per il fuggiasco. Quando poi capisce che la preda, così ferocemente inseguita, altri non è se non una giovane donna, comincia a interrogarsi se sia davvero disposto a eseguire gli ordini. O se, piuttosto, non sia arrivato il momento di uscire dal gruppo. Per trovare un’altra strada, una via di fuga dall’oppressione e dal terrore. Da un mondo che corre verso la catastrofe di un nuovo conflitto, questa volta però imbarbarito dall’uso di ordigni nucleari. E l’intera storia prende corpo nei ricordi, nelle parole prima avare, poi torrenziali,  del vecchio soldato, che le affida all’ascolto, alla memoria di un giovane incontrato quasi per sbaglio.

Vincitore in Francia di riconoscimenti importantissimi, come il Goncourt e il Médicis, Makine è arrivato in Italia, a Firenze, per il Festival degli Scrittori insieme agli altri quattro finalisti (Katie Kitamura. Lawrence Osborne, George Saunders, proclamato vincitore dell’edizione 2018, e David Szalay) del Premio dedicato alla memoria dello scrittore Gregor von Rezzori. E si è soffermato a ragionare sui suoi romanzi, sul fallimento delle grandi rivoluzioni del ‘900, sul senso profondo della letteratura che non si piega al mercato editoriale, su quanto difficile sia per le donne ribellarsi alla violenza.

“Pavel Gartsev vive in un periodo di totalitarismo. Al tempo dell’Unione Sovietica – dice Andreï Makine – quando l’uomo, per il Potere, non aveva alcun valore. Ricordo che il rivoluzionario anarchico russo Michail Bakunin era solito dire: ‘Io non voglio essere me stesso, ma noi’. Affermazione terribile, perché significa che non esiste più l’individuo, conta soltanto la collettività. Quindi se qualcuno, allora, voleva essere se stesso, doveva fare un passo oltre la società. Diventare un bandito, accettare di stare ai margini”.

Le menti migliori, quando c’era l’Urss, finivano in prigione?

“Basterebbe ricordare la storia di Sergej Korölev, il leader del programma spaziale sovietico, sopravvissuto alle prigioni staliniane. Ed è proprio lì, dentro una cella, che ha iniziato a ideare quei missili che avrebbero portato poi Jurij Gagarin e Valentina Tereškova a raggiungere per primi lo spazio. In pratica, inventava i razzi per evadere con la mente dall’angusto cubicolo dov’era rinchiuso”.

I suoi personaggi spesso rischiano di perdere se stessi?

“Lo spazio russo è enorme, Si finisce per essere sempre soli. In Italia, se si percorrono 50 chilometri, il paesaggio è sempre affollato di città, paesi, capolavori architettonici, tutti con la loro storia. Nell’ex Urss, al contrario, ci sono dimensioni enormi. L’orizzonte è quasi sempre vuoto, le persone provano un fortissimo senso di solitudine. Chi vuole continuare a mantenere la propria personalità deve avere il coraggio di affrontare la solitudine. Proprio come i protagonisti de ‘L’Arcipelago della nuova vita’. Che, alla fine, devono per forza incontrarsi, sostenersi, per non naufragare nello spazio immenso e silenzioso”.

Le rivoluzioni di massa hanno fallito?

“Credo che la questione fondamentale sia: a che cosa si relaziona l’uomo? Ci si può confrontare con il denaro, con il proprio stato economico, ci si può sentire poveri o ricchi, oppure mettersi in sintonia con la famiglia, con la politica. Però, se un individuo si mette a confronto con l’universo, pensa a lui in confronto a Dio, allora la prospettiva cambia completamente”.

Perché?

“Non ci si perde più a confrontarsi con i dettagli, con i tormenti terreni, ma si entra in una relazione diretta con l’universo: come dire, io e Dio”.

Ma allora, la vera rivoluzione parte dal profondo dell’uomo, del singolo, non dalla lotta collettiva?

“Se un uomo e una donna, come nel mio libro, sfidano la società, si mettono al di fuori del contesto politico: Bene, questo può cambiare davvero il mondo. Se, poi, su questa via alternativa si incamminano anche altre persone, sempre più numerose, allora può prendere forma una vera ipotesi di rivoluzione. Quella spirituale, che parte dal cambiamento di se stessi prima ancora della trasformazione della realtà circostante”.

Lei ha vinto il Prix Goncourt, il Médicis, ma non ha mai ceduto alle sirene del mercato editoriale…

“La mia grande forza dipende dl fatto che ho vissuto nell’Unione Sovietica. Un Paese totalitario ti insegna a considerare il tuo lavoro letterario, rispetto al mercato, in maniera totalmente diversa. Quando Michail Bulgakov ha scritto quel capolavoro che è ‘Il Maestro e Margherita’ negli anni Trenta sapeva che il suo romanzo sarebbe stato fermato dalla censura. Però aspettava, con pazienza, che arrivasse il momento buono per pubblicarlo. E, in effetti, quel momento è arrivato, però quando lui era già morto. Ma che cosa cambiava, visto che lui aveva scritto le sue opere per l’eternità? Lo stesso discorso vale per Aleksandr Solzenicyn”.

Lui, addirittura, scriveva le sue opere nel silenzio della mente?

“Non esistevano penne, nel gulag. Era impossibile scrivere per i prigionieri della taiga. E allora Solzenicyn doveva fingere di comporre poesie, inventarsi una metrica per non dimenticare le parole, le storie. Anche lui ha potuto lavorare alle proprie opere soltanto molti anni più tardi. Eppure, aveva la convinzione che i manoscritti non bruciano, i libri non spariscono se li vuoi scrivere e pubblicare per davvero. Questa è stata una grande scuola anche per me”.

Difficile passare dalla lingua madre russa al francese?

“In un certo senso no, perché mia nonna parlava francese. Certo, io l’ho dovuto imparare di nuovo, come un bambino, e poi l’ho migliorato negli anni dell’università. Però, il mio non è un caso eccezionale: per noi russi la lingua francese è qualcosa di famigliare. Aleksandr Puškin ha scritto le sue prime, brevi poesie in francese. Un italiano come Giacomo Casanova parlava con Caterina la Grande, una tedesca che regnava sulla Russia, in francese. C’erano anche molti turchi che si destreggiavano molto bene tra queste lingue. Oggi è difficile immaginare Recep Erdogan che dialoga fluentemente in francese o in italiano”.

Ha fatto molti mestieri, ma quando è nata la voglia di scrivere?

“Ho cominciato dalla poesia. Scrivevo versi classici: rondò, sestine molto ben strutturate. Un esercizio terribile, difficile, però ottimo e indispensabile per capire l’importanza di ogni singola parola. A me, poi, piaceva molto ascoltare le storie. E sentire che i deportati dei gulag sussurravano i loro racconti per paura che qualcuno andasse a denunciarli alla polizia, mi faceva una grande impressione. Già allora mi sono reso conto che sarebbe stata una grande perdita se quelle testimonianze fossero andate perdute”.

Le piacciono molto i personaggi femminili, visto che nei suoi romanzi ce ne sono di veramente belli?

“I personaggi femminili sono più metafisici, più tragici. Pensiamo solo che la donna è quella che dà la vita, pur sapendo che suo figlio è destinato a morire. Porta in grembo, insomma, la Vita e la Morte al tempo stesso. Noi abbiamo perso la percezione di quanto sia centrale, e tragica, la figura femminile. Tanto che ci permettiamo di usare loro violenza. Ogni anno, in Francia, vengono molestate 75mila donne. In Gran Bretagna, per 40 anni sono stati commessi orrori pazzeschi senza che un giornalista trovasse il coraggio di denunciarli”.

Adesso l’ombra delle violenze si allunga anche sull’Accademia del Nobel…

“Sì, ma almeno c’è un aspetto positivo. Dopo il caso del produttore hollywoodiano Harvey Weinstein, molte attrici, e non solo loro, hanno trovato il coraggio di denunciare i loro violentatori. Ancora troppo spesso, però, a fermare, a costringere al silenzio, chi viene molestato è la paura”.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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