• 28/01/2019

“La douleur”, una prova d’attrice per Marguerite Duras

“La douleur”, una prova d’attrice per Marguerite Duras

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Dire Marguerite Duras, e pensare a un film tratto da un suo libro, dovrebbe dare la tremarella. Perché ritornano subito alla memoria le immagini di “Hiroshima mon amour”, il film-capolavoro di Alain Resnais che più di tutti contiene in sé la capacità di dare forma al triangolo amoroso tra la scrittrice, la letteratura e il cinema. Ma anche le prove registiche della stessa autrice di “Una diga sul Pacifico”, “Moderato cantabile”, “L’amante”. Pellicole coraggiose e viscerali come “Détruire dit-elle, “Le navire night”, “Le camion”, “India song”, “Nathalie Granger”. Opere visionarie, in dialogo stretto con i testi scritti, che in Italia non hanno mai trovato una vera platea di spettatori, se non nei circoli più ristretti di cinefili.

Per Emmanuel Finkiel, però, la paura di confrontarsi con Marguerite Duras non è riusciva a far vacillare il suo sogno. Da quando aveva 19 anni, infatti, il regista di “Les européens”, “Je ne suis pas un salaud”, desiderava con tutte le sue forze portare sul grande schermo un testo della scrittrice. Non un libro intero, ma un frammento. Alcune pagine di diario, trasformate in racconto, che avevano lasciato un segno fortissimo su di lui. Esattamente, il capitolo “Il signor X, detto qui Pierre Rabier”, pubblicato all’interno di uno dei capolavori di maggior successo della grande artista nata a Saigon nel 1914, e morta a Parigi nel 1996: “Il dolore”.

Ma perché proprio quella storia? Semplice, perché Emmanuel Finkiel vedeva in quel pugno di pagine, che in Italia sono state tradotte da Laura Guarino e Giovanni Mariotti e pubblicate da Feltrinelli all’interno del libro “Il dolore”, in quella ventina di fogli intrisi di lacrime e coraggio, di paura e disperazione, di smarrimento e volontà di non arrendersi, una sorta di summa perfetta del tormento indicibile di un’anima. Di una giovane donna posta davanti a un dilemma atroce: ovvero, quello di dover frequentare un componente francese della Gestapo a Parigi. Per non perdere i contatti con il proprio uomo, arrestato con l’accusa di essere uno dei punti di forza della Resistenza antinazista (guidata da Francois Mitterand, che si fa chiamare Francois Morland), destinato a essere deportato nei campi di sterminio.

Da subito, Emmanuel Finkiel ha deciso di non trasformare “La douleur” in una biografia filmica di Marguerite Duras. Perché non voleva che la storia scivolasse verso la celebrazione di una donna che, in Francia, ma non solo lì, è considerata un mito. Non sopportava che il suo film si inabissasse nella palude della diceria, dei fatti privati raccontati a mezza voce, della rivelazione pruriginosa. Così, ha scelto un’attrice come Mélanie Thierry, scoperta da Giuseppe Tornatore quando aveva appena 17 anni nel suo “La leggenda del pianista sull’oceano”, che indubbiamente ha lo stesso fascino fragile e tormentato della scrittrice, pur senza assomigliarle oltre una certa vaga simmetria.

Così, “La douleur” racconta la storia di Marguerite Duras nei giorni dell’occupazione nazista della Francia. Del suo dolore indicibile per l’arresto nel giugno del 1944 di suo marito Robert Antelme (l’attore Emmanuel Bourdieu), dell’ambiguo rapporto che si instaura tra lei e Pierre Rabier (un ambiguo, inquietante, tenebroso eppure spaesato Benoit Magimel). E segue, anche visivamente, con scene di ipnotica bellezza, lo sdoppiarsi della scrittrice dura e pura, dell’attivista che non può nemmeno immaginare di scendere a patti con gli aguzzini, e quello della donna che deve abbigliarsi, truccarsi, inventarsi sempre nuove moine, per non perdere quel contatto repellente, eppure utilissimo, con l’unico rappresentante del mondo con la croce uncinata. Biforcuto corteggiatore che sembra, però, disposto a lasciar aperto uno spiraglio alla speranza.

Ma quello di Pierre Rabier, in realtà, che cos’è? Il corteggiamento di un uomo che sta per farsi spazzare via, insieme alla Germania nazista, dalla furia delle bombe alleate e dalla ragnatela tessuta dagli uomini della Resistenza? Oppure un reale innamoramento di chi cammina sopra un filo di seta teso proprio al centro dell’abisso? Emmanuel Finkiel è bravissimo a non concedere nulla allo spettacolo, a inventare pochissimi passaggi, necessari all’evolversi della storia, che quasi mai tradiscono la rocciosa coerenza del libro di Marguerite Duras.  A non arzigogolare su questa imbarazzante, eppure necessaria, “liaison dangereuse”.

Così, il suo “Douleur” rimane aggrappato al testo originale, nelle numerose citazioni della voce fuoricampo, in una struttura che segue l’andamento della trama originale, anche quando evita di calcare la mano sul fatto che l’autrice, mentre si consumava nella disperante attesa di Robert Antelme (che, al ritorno da Dachau, avrebbe pubblicato uno dei libri più perturbanti e intelligenti sull’esperienza del lager: “La specie umana”), sapeva già che avrebbe chiesto il divorzio da lui. Dal momento che si era innamorata di un altro compagno attivo nella Resistenza: Dionys Mascolo, che sullo schermo ha il volto del cantautore e attore Benjamin Biolay.

Lento, straziante come il dolore che porta Marguerite a sfiorare il baratro dell’autodistruzione, splendido nelle improvvise aperture d’orizzonte su una Parigi stretta prima nella morsa del terrore, e poi finalmente libera di lasciarsi andare alla gioia di una ritrovata libertà (seppure avvelenata in fretta dal desiderio di silenziare i ricordik dei sopravvissuti ai lager per non interferire con la celebrazione della grandeur di Charles De Gaulle) , “La douleur” deve gran parte della sua forza visiva alla prova d’attrice di Mélanie Thierry, che nel 2010 ha vinto il César come migliore promessa femminile per la sua interpretazione in “Le dernier pour la route” di Philippe Godeau. Mai sopra le righe, anche quando i vertici del dolore sfiorano la pazzia, la ventottenne attrice di Saint-Germain-en-Laye regala al film una recitazione di alta scuola. Drammatica, emozionale, davvero fuori controllo solo nei pochi momenti in cui è necessario che il suo personaggio perda il contatto con la realtà. Capace di contenere in sé la voce tenebrosa della tragedia e e quella lieve della poesia.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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