• 24/02/2019

“Teorema” di Pasolini, il sacro e il perturbante

“Teorema” di Pasolini, il sacro e il perturbante

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Mammona che si innamora di Dio. Certo, può sembrare un po’ troppo biblica, suggestiva ma assai criptica, questa definizione di “Teorema” di Pier Paolo Pasolini. Eppure, in sei parole, il critico letterario Cesare Garboli riuscì a raccontare con grande intelligenza e capacità di sintesi i punti di riferimento del film, ma anche del romanzo, che il poeta, regista e scrittore di Casarsa mise a punto nel 1968. Portandolo, poi, in concorso alla Mostra del cinema di Venezia, dove vinse la Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile di Laura Betti.

In effetti, era proprio questo l’intento dell’opera pasoliniana più perturbante e visionaria, che lo stesso regista definiva come codice, referto, parabola, manualetto laico a canone sospeso: mettere a fuoco, quasi come si fa con i teoremi matematici, che cosa potrebbe accadere se il sacro di manifestasse all’improvviso al centro delle giornate tutte uguali di una famiglia borghese. Se il Dio Denaro, o Mammona secondo la definizione delle Sacre Scritture, insomma, si trovasse a vivere una crisi profonda nel momento in cui, a casa sua, comparisse all’improvviso un messaggero dell’Altrove.

Non è certo un segreto che Pasolini si sentisse sempre più a disagio dentro il modello capitalista che stava stringendo dentro una rete sempre più stretta la società occidentale. Cinque anni prima nella “Ricotta”, l’episodio da lui firmato per il film collettivo “RoGoPaG”, a cui parteciparono anche Roberto Rossellini, Jean Luc Godard e Ugo Gregoretti, mettendo in scena una stralunata ricostruzione della crocifissione di Cristo faceva recitare a Orson Welles, nei panni del regista, una poesia assai eloquente: “Io sono una forza del passato / solo nella tradizione è il mio amore / vengo dalle ruderi, dalle chiese / dalle pale d’altare, dai borghi / dimenticati sugli Appennini o le Prealpi / dove sono vissuti i miei fratelli”.
Davanti al dilagare dei consumi, assistendo alla perdita progressiva e inesorabile di significato delle religioni, quella cattolica prima di tutte, constatando l’affermarsi di un edonismo basato su non valori, sul possesso dei beni di consumo, Pasolini non poteva non interrogarsi su se cosa sarebbe accaduto se il divino, il mito, il perturbante, un ospite inatteso e misterioso si fosse manifestato all’improvviso al centro del nulla umano di una tipica famiglia borghese della fine degli anni Sessanta.

“Teorema”, come un’asserzione matematica, parte proprio da un enunciato. Che, ovviamente, contiene in sé pretese di esemplarità e di assolutezza, come ogni teorema: “Data una famiglia borghese tradizionale (padre, madre, figlio, figlia e domestica), se un elemento estraneo vi entra portando con sé la forza scandalosa del sacro, essa si distrugge. Ogni componente perde se stesso in maniera differente”.

Il film inizia in modo straniante. Prima dei titoli di testa, appare il critico letterario Cesare Garboli, nei panni di un giornalista, che interroga gli operai sul significato del gesto del loro padrone: sembra, infatti, che abbia donato loro la fabbrica. Le domande del cronista suonano più simili a spaesate asserzioni che a vere e proprie domande. E gli operai, da parte loro, tacciono o balbettano banali risposte. Non sono capaci di formulare un ragionamento compiuto, di spiegare un evento così anomalo, straordinario. Sono il simbolo della sconfitta della classe operaia.
Già nel 1958, Pasolini aveva scritto che “il neocapitalismo va assorbendo degli strati di proletari progrediti e riconquistando degli strati di borghesia progressista”. E dieci anni più tardi, in una conversazione con il critico e storico del cinema Sergio Arecco, si sarebbe dichiarato ormai “privo, praticamente e ideologicamente, di ogni speranza… Quindi niente sol dell’avvenire, niente mondo migliore”.

In “Teorema”, a scompaginare la vita di una ricca famiglia borghese è un misterioso ospite interpretato da Terence Stamp, l’attore inglese che allora aveva trent’anni. Veniva da esperienze non banali con registi del calibro di William Wyler, Joseph Losey, John Schlesinger, con il trentunenne debuttante Ken Loach, e sarebbe stato ingaggiato da Federico Fellini per l’episodio “Toby Dammit” di “Tre passi nel delirio”, ispirato ai racconti di Edgar Allan Poe. Due anni più tardi, avrebbe interpretato il ruolo di Arthur Rimbaud in un film firmato dal poeta Nelo Risi: “Una stagione all’inferno”.

Del visitatore non si sa nulla. Il suo arrivo, e poi la partenza vengono annunciati da Angiolino (Ninetto Davoli, uno degli attori-feticcio del cinema di Pasolini), una sorta di “folle di Dio”, che arriva e se ne va danzando, senza mai smettere di sorridere, e che riesce a stanare la cameriera Emilia dal suo rigido protocollo di donna di fiducia della famiglia.

Dell’ospite misterioso si può dedurre, dalle dispense che sta sfogliando all’inizio del film, che sia iscritto alla facoltà di Ingegneria. Ma ad appassionarlo per davvero sono i versi del poeta “maledetto” Arthur Rimbaud, che legge nell’edizione Feltrinelli delle “Opere” con la traduzione di Ivos Margoni, l’unica disponibile allora in Italia.

Il fascino del giovane uomo senza storia finisce per contagiare l’intera famiglia. Anche se la prima a provare un forte turbamento davanti al corpo dell’ospite, fasciato da quegli abiti bianchi che da sempre sono simbolo dei messaggeri del trascendente, è la governante Emilia (la scarmigliata, intensa Laura Betti). Mentre pulisce il giardino, non resiste alla tentazione di spazzare via dai calzoni dell’ospite la cenere caduta dalla sigaretta che sta fumando. E per farlo, avvicina la mano al sommo tabù del corpo maschile: gli organi genitali.

Da quel preciso istante, l’intera famiglia finirà per provare un turbamento fortissimo. Tutti, uno dopo l’altro, avranno un rapporto carnale con il messaggero venuto da un altrove mai svelato. E l’incontro ravvicinato cambierà il loro sguardo sulla realtà, ma non li salverà. Anzi, li renderà stranieri nel contesto sociale di cui fanno parte: quella borghesia fagocitata dai non valori del consumismo.

Odetta (interpretata da Anne Wiazemsky, allora moglie del regista francese Jean Luc Godard) perderà ogni contatto con la realtà rifugiandosi nella catatonia. Pietro (interpretato da Andrès José Cruz Soublette) cercherà rifugio nell’arte, ma non troverà il senso di quello che sta creando. Lucia (la splendida, Silvana Mangano, così perfetta da sembrare un essere non terrestre) passerà dall’acritica sottomissione alla vita borghese all’arrendersi a irrefrenabili pulsioni sessuali. Il padre, Paolo (Massimo Girotti, perfetto capitano d’azienda e modello di capofamiglia), cederà la fabbrica agli operai, si spoglierà dei costosi abiti alla Stazione di Milano, vagherà nudo alle pendici dell’Etna gridando il proprio deserto interiore. Il nulla che assomiglia al contesto sociale disumanizzato creato dal capitalismo. Vivendo, in questo finale apocalittico, “la crisi radicale dell’ovvio, del domestico”, come la definiva l’antropologo e storico delle religioni Ernesto De Martino.

Qualcuno ha visto nel deserto, nel vuoto di se stessi, dove si perde Paolo (lo stesso vuoto in cui ha abitato Lucia, fedele al suo ruolo di moglie, madre, angelo della casa), un ritorno simbolico al luogo in cui gli ebrei fecero proprio il significato del Dio unico. Ma Pasolini non intendeva concedere un’ascesi mistica al suo capofamiglia. Anzi, il suo intento era proprio quello ti dimostrare come non vi sia speranza nel mondo del consumo sfrenato. Dell’ipnosi collettiva che porta il singolo ad annullarsi nella massa. Quella massa che desidera sempre nuove tivù, sempre più belle macchine, sempre più raffinati abiti e cibi.

Come è evidente, anche a una lettura assai superficiale del film e del romanzo, che l’ospite misterioso di “Teorema” non è Gesù, l’agnello sacrificale, il buon pastore del Nuovo Testamento. Piuttosto, potrebbe ricordare il Cristo che sfascia il tempio profanato e caccia i mercanti avidi solo di guadagni. O essere, come scriveva lo stesso Pasolini parlando del suo “Teorema” sulla rivista “Quinzaine littéraire”, un “messaggero del Dio impietoso, di Jehovah che attraverso un segno concreto, una presenza misteriosa, toglie i mortali dalla loro falsa sicurezza. È il Dio che distrugge la buona coscienza, acquistata a poco prezzo, al riparo della quale vivono o piuttosto vegetano i benpensanti, i borghesi, in una falsa idea di se stessi”.

C’è solo un personaggio in “Teorema” che troverà un faticoso cammino verso la salvezza: Emilia, la domestica, l’unica non borghese della famiglia. La figlia di contadini venuta in città per servire i padroni.

Il ritorno alla campagna, la scelta di alimentarsi con miseri decotti di ortiche, la levitazione che le sarà concessa dopo aver rinunciato agli orpelli del mondo (davanti a una piccola folla di pezzenti che ricorda il “Quarto stato” dipinto nel 1901 da Giuseppe Pellizza da Volpedo), sono solo il preludio alla sua privata via crucis. Emilia, infatti, si farà seppellire là dove le ruspe preparano un nuovo formicaio di appartamenti alle porte di Milano. E dal fango che la ricopre farà sgorgare una sorgente d’acqua pura, generata dalle sue stesse lacrime. Segno di contraddizione in un ambiente degradato dall’ansia di nutrire la catena di montaggio dei consumi.

E l’ospite? Tornerà misteriosamente da dove è venuto. Portando con sé quell’aura di erotica sacralità, dove convivono la luce e le tenebre. Non a caso, il personaggio di Terence Stamp richiama alla memoria il ruolo del sacerdote, di chi officiava i riti nei culti antichi di Mitra, di Dioniso. Divinità doppie, ambigue, capaci di riassumere in sé lo spirito trascendente e quello immanente, il lato umano e bestiale. Mente e corpo, anima e carne.

Lo stesso poeta e regista, nel libro “Pier Paolo Pasolini, le regole di un’illusione. I film, il cinema” a cura di Laura Betti e Michele Gulinucci, metteva a fuoco la questione chiedendosi “se una famiglia borghese venisse visitata da un giovane dio, Dioniso o Jehova, che cosa succederebbe?”. Senza negare che l’ospite potesse simboleggiare Lucifero, l’angelo caduto. Il ribelle sacro, seppur rinnegato, per eccellenza.

Ma a ben pensare, lo stesso Cristo del “Vangelo secondo Matteo” potrebbe rappresentare il segno di contraddizione, l’evento perturbante che si manifesta al centro di un piccolo mondo borghese. Dal momento che Pasolini, nel film definito dalla critica “più cattolico che marxista”, fa pronunciare a Gesù quelle parole che la Chiesa tende sempre più a disinnescare, edulcorare, svilire. Basterebbe pensare a “sono venuto a portare non pace, ma spada. Sono infatti venuto a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera: e nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa”. E ancora: “Guai a voi, scribi e farisei, che pagate la decima della menta, dell’anèto e del cumino, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà”.

Nel volume-intervista “Il sogno del satiro”, Pasolini confiderà al giornalista e scrittore Jacques Duflot: “Credo che se ė così insistente la mia nostalgia del sacro, è perché rimango legato agli antichi valori. A volte, ho il sentimento che siano vittime di un‘accelerazione artificiale, di un oblio ingiustificato, prematuro”.

E se il presente è l’inferno dove “il neocapitalismo sembra seguire la via che coincide con le aspirazioni delle masse”, e fa scomparire “l’ultima speranza in un rinnovamento attraverso la rivoluzione comunista”, il futuro assume i toni dell’apocalisse. Non tanto perché vaticina la fine del mondo, l’avvento di un altro regno, come facevano i più visionari tra i profeti, ma perché fa i conti con la fine di “un mondo”. Con la scomparsa della speranza in un cambiamento e il trionfo del Verbo consumista, edonista.

Allora è in questa prospettiva che si può capire perché i film di Pasolini non forniscono mai una morale finale. “Procedo per allusioni – spiegava lui stesso -, li pongo a canone sospeso, come dice Roland Barthes a proposito del metodo di Bertolt Brecht, sospendendo il significato”.

Secondo Walter Benjamin, gli antichi dei, traghettati nel mondo moderno, hanno provocato la nascita dell’allegoria. E James Hillman, lo psicoanalista statunitense cresciuto alla scuola di Carl Gustav Jung, nel “Saggio su Pan” sosteneva che la rimozione dell’empireo pagano a favore dell’unico Dio delle religioni monoteiste ha trasformato i vecchi dei in malattie dell’anima. Ecco, in “Teorema” l’ospite diventa l’epifania che annuncia la fine di un mondo. L’apocalisse prossima ventura che si riflette nell’urlo di Paolo, nel compulsivo degradarsi di Lucia, nella follia creativa di Pietro, nel distacco dalla realtà di Odetta.

Inaugurando una rubrica sul settimanale “Tempo” dal titolo “Caos”, nell’agosto di un anno cruciale per chi sperava che il mondo potesse cambiare come il 1968, Pasolini annotava: “In uno dei suoi ultimi libri, Jung dice che l’ossessione dei dischi volanti (visti realmente, oggettivamente esistenti) è un bisogno inconscio degli uomini di riavvistare l’apparizione del sacro: di essere testimoni, se non di vere e proprie teofanie, almeno di ierofanie. Insomma, i dischi volanti sarebbero i sostituti degli angeli. Son certo che è così”.

Non c’è evidenza, purtroppo, negli scritti di Pasolini, che ci permetta di affermare con certezza che il poeta e regista di Casarsa abbia letto uno di testi più affascinanti ed enigmatici scritti negli anni Trenta del ‘900 da Carl Gustav Jung. Quei “Septem sermones ad muortos” pubblicati solo moltissimo tempo dopo la sua scomparsa. Al pari di un libro affascinante e oscuro come il “Liber novus”, o “Libro rosso”, considerato a lungo impubblicabile, visto che lo stesso autore lo classificava come “peccato di gioventù”.

Se Pasolini fosse riuscito a intercettare questo libro, raccolto e edito da Aniella Jaffé, pubblicato in prima edizione italiana da il Saggiatore nel 1965, si sarebbe innamorato dell’idea di Abraxas, che è al tempo stesso “il sole e la gola eternamente succhiante del vuoto, di ciò che sminuisce e sembra, del demonio”. Duplice è il potere di Abraxas, “ma voi non lo vedete, perché ai vostri occhi gli opposti in conflitto di questo potere si annullano”.

Nei “Sermones”, che Jung attribuiva a “Basilide in Alessandria, la città in cui l’Oriente tocca l’Occidente” (ovvero, a quell’allievo di Menandro, gnostico eretico, uno dei primi commentatori dei testi evangelici delle cui opere ci rimangono solo pochi frammenti), Abraxas prende le sembianze del Dio altissimo, padre ingenerato in cui convivevano luce e oscurità, Bene e Male.

Quando parlava della cancellazione del sacro nella società dei consumi, Pasolini non intendeva manifestare la sua nostalgia per qualcosa che avesse connotati rigidamente confessionali, e ancor meno dogmatici. “Mi rendo conto – spiegava – che in questa mia nostalgia di un sacro idealizzato e forse mai esistito – dato che il sacro è sempre stato istituzionalizzato, all’inizio, per esempio, dagli sciamani, poi dai preti – che in questa nostalgia, dicevo, c’è qualcosa di sbagliato, di irrazionale, di tradizionalista”.

Ricordiamo bene le sue critiche feroci nei confronti di una Chiesa cattolica che aveva alzato del tutto bandiera bianca davanti all’avanzare arrogante della mistica perversa e raggelante del capitale (”le religioni hanno una funzione repressiva, di essenza radicalmente reazionaria, in quanto rafforzano l’assuefazione al potere”). No, il significato che voleva dare a questo idealizzare un passato mitico lo avvicinava alla visione dell’antropologo e filosofo britannico Gregory Bateson, cresciuto in un ambiente familiare rigorosamente ateo. Nel libro uscito postumo “Dove gli angeli esitano”, curato dalla figlia Mary Catherine, parlava di una dimensione integrale dell’esperienza, a cui dava il nome di “sacro”, di un senso del tutto al quale ci si può accostare solo con timore reverenziale. Perché ispira umiltà, quando si trova il coraggio di ammettere che ci sono limiti a ciò che la scienza può sapere.

E, come diceva il poeta visionario William Blake: “May God us keep from Single vision and Newton’s sleep”, possa Dio preservarci dalla visione unica e dal sonno di Newton.

Scriveva Mircea Eliade, lo storico delle religioni di origine rumena, morto a Chicago nel 1986, nel suo libro “Il mito dell’eterno ritorno”: “Il mito dice la verità: la storia genuina diventa menzogna. D’altra parte il mito era effettivamente vero in quanto dava alla storia un suono più profondo e più ricco: rivelava un destino tragico“.

E Pasolini, citando lo stesso Eliade, spiegava che “la mitizzazione della natura implica la mitizzazione della vita quale era concepita dall’uomo prima dell’era industriale e tecnologica, all’epoca in cui la nostra civiltà si organizzava attorno ai modi di produzione agraria”. Ricollegarsi al mito insomma, nella visione dello scrittore e regista, era molto più rivoluzionario che aggrapparsi ancora all’illusione di una rivoluzione innescata dall’illusoria reazione di un‘avanguardia operaia: “È realista – spiegava Pasolini – solo chi crede nel mito, e viceversa. Il mitico non è che l’altra faccia del realismo. Non mano che studio i mistici vado scoprendo che l’altra faccia del misticismo è proprio il fare, l’agire. L’azione”.

In “Teorema”, la lettura proposta da Pasolini della società di là da venire, che negli anni ‘60 stava facendo solo le prove generali per la desertificazione culturale e umana in atto nel terzo millennio, toccava anche un altro tema. Forse ancor più perturbante e innominabile di quello della desacralizzazione della società. Era, cioè, l’imporsi sempre più evidente del lavoro come eros. Della sostituzione della soddisfazione carnale con quella legata al proprio ruolo nel mondo produttivo. “Gli straordinari – affermava lo scrittore e regista – l’operaio lì fa anzitutto perché è costretto a non assumere che un certo ruolo erotico, ad attenersi alla parte legale dell’amore”.

Come sia andata a finire questa lenta, silenziosa trasformazione del rapporto tra l’uomo e il lavoro nel mondo capitalista, lo racconta, con grande lucidità, Byung-Chul Han, il filosofo nato a Seul che insegna alla Universität der Künste di Berlino, nel suo libro “Psicopolitica”: “Nella società della prestazione neoliberale chi fallisce, invece di mettere in dubbio la società o il sistema, ritiene se stesso responsabile e si vergogna del fallimento. In ciò consiste la speciale intelligenza del regime neoliberalismo: non lascia emergere alcuna resistenza al sistema”.

Rimangono negli occhi, allora, le scene di “Teorema”, quando il capofamiglia si riduce a vagare nel deserto urlando parole senza senso, e Odetta perde il contatto con il linguaggio per rifugiarsi nella catatonia. Ma anche quelle di “Porcile”, quando Julian sceglie lo scandalo estremo e si fa mangiare dagli amati maiali, mentre il giovane Cannibale sfiderà la giustizia dei gendarmi dicendo: “Ho ucciso mio padre, ho mangiato carne umana, ed ora tremo di gioia”.

Se l’Italia di Antonio Gramsci è cambiata al punto tale da non poter più distinguere tra popolo e borghesia, tra classe dominata e classe dominante (“perché il popolo – diceva Pasolini – si è andato imborghesendo ed è nata la massa”), allora la sola possibile rivoluzione è quella che porta il misterioso ospite all’interno della cellula compatta della famiglia borghese. Ed è una rivolta al modello di vita imposto dal potere repressivo che passa per le strade della riscoperta del sacro, della forza dirompente della sessualità. Una dissociazione scandalosa, fuori moda, totale, dalle nuove metamorfosi del potere. Un potere che mostra il volto remissivo e accattivante di un’apparente tolleranza. Che non impone divieti, ma concede interlocutorie libertà. Che è capace di tollerare, per poi edulcorare e rendere sue complici anche le forme più violente di contestazione.

A chi gli rinfacciava di essere ossessionato dalla santità, Pasolini ribatteva che la santità “può prendere il senso del rifiuto del mondo, dell’ascesi, dell’esercizio della crudeltà nei propri confronti, della ricerca di un approfondimento irraggiungibile di sé”. Se fosse riuscito a finire il romanzo “Petrolio” e a girare il film “Porno-Teo-Kolossal”, di cui ci rimane la sceneggiatura, di certo sarebbe riuscito a mettere a fuoco ancor meglio questo suo senso della rivolta sospeso tra il sacro e il rifiuto del mondo reale.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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