• 28/07/2019

Maria Sánchez Puyade: “La mia scatola delle meraviglie”

Maria Sánchez Puyade: “La mia scatola delle meraviglie”

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C’era una scatola, in quella cantina. Era di legno scuro, sul coperchio qualcuno aveva intarsiato le figure di due musicisti. Ma non conteneva oggetti preziosi, brillanti, monete d’oro. No, soltanto, vecchie buste di cartone rosse e nere. Con una scritta che diceva tutto e niente: “Fotografie varie”. Eppure, qualcosa di irrazionale suggeriva a Maria Sánchez Puyade di prendere quell’anonimo contenitore. Di portarlo via con sé, per cercare di dare una storia alle immagini. Per provare a capire se le tantissime lastre di vetro messe lì un po’ alla rinfusa raccontassero solo una delle tante storie di famiglia. O qualcos’altro.

Il problema era ricevere il consenso di Adele Colbaccchini, che in famiglia chiamavano Cochi. La nonna di suo marito. Era stata lei a invitare Maria Sánchez Puyade a scendere in cantina: “Vedi se c’è qualcosa che ti interessa”, le aveva detto. Ma avrebbe acconsentito, adesso che la sua vita si avviava verso l’appuntamento con la Morte, a separarsi da quel piccolo tesoro fotografico?

“Dissi a nonna Cochi che desideravo la scatola delle fotografie – racconta adesso l’artista e poeta Maria Sánchez Puyade, nata in Argentina, laureata in Lettere e Giurisprudenza all’Università di Buenos Aires, che dal 2005 vive a Trieste -. Lei rimase contrariata, e io tremai come una bambina all’idea di una risposta negativa. Intervenne mio suocero con il suo solito modo risoluto: ‘Ma sì, cosa vuoi, portale via!’. Ho passato due anni a cercare di capire che cosa ci fosse veramente dentro quel cofanetto”.

Non era la solita vagonata di anonime foto di famiglia. E Maria Sánchez Puyade ha cominciato a capirlo quando, guardandole prima controluce, e poi passandole allo scanner, si è imbattuta in una lastra con la scritta “Colón, Viale di Eucaliptos”. Ecco, il brivido che le attraversò il corpo in quel momento non diceva soltanto che stava guardando un’immagine scattata nei luoghi della sua infanzia. No, c’era qualcosa di più. Forse la storia che riportava alla figura di un prete missionario, vissuto tra gli indios d’America e autore del primo dizionario della tribù dei Bororos.

“Mio marito, qualche volta, mi aveva parlato di un prete di famiglia – spiega Maria Sánchez Puyade -, missionario tra gli indios in America e autore del primo vocabolario dei Bororos. La mia curiosità, però, era stata sempre inferiore al mio rifiuto: io ero sudamericana, educata in una scuola di suore (dalla quale ero scappata), con un pensiero di sinistra e che riteneva di sapere bene cosa avessero significato le Missioni dalle nostre parti”.

Quello delle foto non era un prete qualsiasi. Non era un missionario che aveva soltanto cercato di martellare nella testa degli indios il culto di Gesù e di Maria Vergine. No, l’uomo che aveva riempito la scatola scura di lastre di vetro era padre Antonio Colbacchini. Nato nel 1881 in Veneto, era entrato nell’ordine dei Salesiani a 16 anni. Partito per il Brasile nel 1898, non era più rientrato in Italia, tranne che per brevissimi periodi e negli ultimi due anni della sua vita. Cioè, nel 1958, visto che si spense nel 1960.

Ma tutto questo diceva ancora poco o niente. Fino a quando Maria Sánchez Puyade ha scoperto che di padre Antonio Colbacchini erano pieni i libri di uno dei miti della cultura europea del ‘900: Claude Lèvi Strauss. L’antropologo e filosofo nato a Bruxelles nel 1906, e morto a Parigi nel 2009, teorico dello Strutturalismo e capace di far dialogare campi apparentemente diversi del sapere, parlava del salesiano come di un’autentica autorità in materia di studi linguistici e mitologici sui Bororos, soprattuto nel saggio “Il crudo e il cotto”, ma anche nel suo capolavoro “Tristi Tropici”.

A quel punto, la fantasia dell’artista ha iniziato a inventare possibili scenari attorno a quella storia. “Nel 2018 decisi di inaugurare il mio studio d’arte a Trieste con una piccola mostra – spiega Maria Sánchez Puyade – con una piccola mostra ispirata da quelle fotografie. Iniziai il lavoro da capo. Pulii le lastre una a una, le misi in busta e le archiviai. Avevo più o meno 460 lastre, quasi tutte dei negativi”.

Ma quel progetto non poteva essere la conclusione di un percorso mentale e artistico, sulle tracce di padre Antonio Colbacchini. Infatti, Maria Sánchez Puyade ha continuato a lavorare, a fantasticare, a mettere a punto il suo progetto. L’immenso archivio di immagini, realizzate con indiscutibile evidenza dallo stesso missionario salesiano, si è trasformato in una gigantesca collezione da esporre.

Con un colore azzurrino a donare alle vecchissime foto il fascino del tempo andato, ma anche il richiamo a un altrove che è lì, a portata di mano, gli scatti sono andati a formare la mostra “L’ombra chiara del Tempo”, che Maria Sánchez Puyade ha inaugurato il 21 luglio alla Sala Veruda di Palazzo Costanzi a Trieste. E che resterà aperta fino a domenica 4 agosto, tutti i giorni dalle 10 alle 13 e dalle 17 alle 20.

Non sono solo le fotografie a ricostruire questa straordinaria storia. Ma anche alcuni oggetti preziosi appartenuti alla tribù dei Bororo. E poi, documenti, immagini, libri ormai introvabili. “In una libreria dell’usato di Buenos Aires – racconta l’artista -, che a me ricorda uno dei tanti Aleph raccontati da Jorge Luis Borges, trovai uno dei quattro esemplari del racconto ‘Uke Waguu’ di padre Colbacchini, la storia del cacicco che ebbe la visione della Madonna prima di entrare in contatto con i missionari. Gli altri esemplari si trovavano a San Paolo, in una biblioteca di Firenze e in California, da un cugino di mio marito la cui famiglia è migrata in Nord America a metà del secolo scorso”.

In quella scatola con i due musicisti disegnati, Maria Sánchez Puyade ha trovato la porta d’ingresso verso un altrove che, forse, cercava di mettersi in comunicazione con lei da tanto tempo. E che, adesso, ha trovato il modo di riflettersi dentro la sua sensibilità di artista. Dentro la voglia di creare un dialogo tra mondi apparentemente lontani.  Quello del mito, degli studi antropologici e dell’arte. Che in realtà, come dimostra “L’ombra chiara del Tempo”, parlano la stessa lingua.

<Alessandro Mezzena Lona<

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