Capita spesso che le giurie dei premi più importanti si facciano una bella dormita. Finendo per dimenticare, trascurare, penalizzare alcuni romanzi forti, significativi, pubblicati nel corso dell’annata letteraria. Quegli stessi libri, insomma, che si faranno ricordare, e leggere, anche a decenni di distanza. E che, a ben guardare, riusciranno a vendere dieci volte più delle opere, spesso mediocri, spinte verso il trionfo nei medesimi premi. Ne citiamo uno a caso? Certo: “Ovunque io sia” di Romana Petri. Riconosciuto da molti, critici e lettori, come il romanzo più bello, coinvolgente, elegante nella lingua, pirotecnico nella trama, contrappuntato da personaggi indimenticabili, di tutto il 2008.
Eppure, se andate a cercare nella lista dei premi assegnati quell’anno, non troverete traccia di “Ovunque io sia”. Anche se poi, a dire il vero, il talento letterario di Romana Petri è stato riconosciuto in altre occasioni, da altre manifestazioni. Tanto che la scrittrice romana, che vive tra Roma e Lisbona, ha conquistato due volte il Mondello, e poi il Rapallo Carige, il Grinzane Cavour, il Bottari Lattes Grinzane, e altri ancora.
Non per questo, Romana Petri ha smesso di scrivere. Anzi, da allora sono usciti altri suoi romanzo bellissimi: basterebbe citare “Figli dello stesso padre”, finalista al Premio Strega, e “Le serenate del Ciclone”. Eppure, chi ha amato “Ovunque io sia” non si è mai rassegnato a pensare che quel termitaio di personaggi fosse destinato a restare chiuso, per sempre, dentro le pagine di un solo romanzo. Seppure densissimo, fluviale. E ha continuato a sperare che un giorno, chissà, i fili della storia di donne coraggiose e messe alla prova dalla vita come Margarida, donna Ofelia, Maria do Ceu, e degli uomini che le affiancano, lo sfuggente Carlos, quel bellimbusto di Manuel e Tiago, il ragazzo pieno di sogni destinati a tramontare molto in fretta, tornassero in vita. Per raccontare come è andata a finire.
È vero, ci sono voluti undici anni. Ma, alla fine, i più pazienti sono stati premiati. Perché Romana Petri ha pubblicato, questa volta con la casa editrice Neri Pozza, un nuovo romanzo che ha le radici nel passato. E sì, perché “Pranzi di famiglia” (pagg. 414, euro 18) riparte proprio da dove si era interrotto “Ovunque io sia”. Da quel legame fortissimo, capace di valicare i confini del tempo e dello spazio, venato di mistero e di passionale magia, che lega un giovane uomo, Vasco, ormai avviato gestore di una galleria d’arte a Lisbona, a sua madre. Quella Maria do Ceu, figlia di Margarida, che non si è mai piegata nemmeno quando la vita l’ha presa a sberle in faccia. Né quando la sua prima bambina, Rita, è venuta al mondo con il viso disegnato come se da quelle parti fosse passato un pittore cubista, neanche dei più bravi, né quando l’amato marito Tiago, che l’aveva avviata sulla strada dell’impegno politico a favore dei più deboli, di chi non ha la forza di contrastare le ingiustizie, si è trasformato in un gelido carrierista. E l’ha lasciata per un’altra donna, molto meno bella, molto più sfuggente e ambigua. Marta, che esprime i primi stati d’animo abbassando gli occhi a terra. Ora verso destra, ora verso sinistra.
“Pranzi di famiglia” non è solo un ritratti corale dei Dos Santos. Non si ferma semplicemente a raccontare la lotta durissima di Rita per trovare il proprio posto nella vita, senza farsi troppo compiangere per le sue menomazioni e per tutte le operazioni che ha dovuto subire. Non si accontenta di tracciare il ritratto nitido di Tiago, che diventa ministro nel nuovo governo portoghese continuando a interessarsi più alla propria carriera che al destino dei figli. Non si esaurisce nemmeno nel seguire la triste parabola della bellissima Joana, la sorella gemella di Vasco, che sembra autoinfliggersi la punizione di una devastante malinconia per espiare chissà quali colpe, e nel documentare l’inesorabile tramonto di di Manuel Ramalhete, il nonno acquisito, inguaribile commediante e seduttore incallito. Un personaggio da operetta, che non smetterà di recitare le battute del proprio copione segreto finché ne avrà la forza.
No, “Pranzi di famiglia” è anche un appassionato, arguto, affettuoso e anche implacabile ritratto di una città vivissima e indolente, affascinante e contraddittoria, come Lisbona. Un microcosmo attraversato dal fiume Tago, il più lungo della Penisola iberica, dove le ferite profonde inferte al Portogallo dalla dittatura fascista sembrano non essersi ancora del tutto rimarginate. E dove una famiglia, come i Dos Santos, può giocare all’infinito la commedia degli equivoci. Può rispettare i riti della buona borghesia facendo calare un rigido silenzio sugli aspetti più sgradevoli e imbarazzanti della vita reale. E covando risentimenti, incomprensioni, frustrazioni incancellabili.
Ma se c’è un personaggio, in questi “Pranzi di famiglia”, che testimonia tutto il talento narrativo di Romana Petri, e il suo amore per le storie che inventa, è senza dubbio quello di Luciana Albertini. Dentro quel rituale, irresistibile e perverso, di incontri domenicali fatti di rancori non detti e cibo ingoiato quasi senza sentirne il sapore, piomba all’improvviso l’artista italiana. Che ha casa a Roma, ma poi allunga le sue radici in molte altre città della Penisola, si manifesta nella vita di Vasco quasi per caso: quando lui si innamora di alcuni suoi quadri, originalissimi e governati da una visione dell’esistenza esoterica e folle, e le propone di allestire una mostra a Lisbona. Fin dalla prima telefonata, e poi dal primo incontro, la donna non deluderà le aspettative del giovane gallerista. Dotata di una fascino solare, capace di guardare negli occhi la vita senza mai indietreggiare, anche se dentro di lei si addensano a volte ombre scurissime, capace di vivere la propria età senza l’ossessione di invecchiare e il desiderio di piacere, di affascinare a tutti i costi, accompagnata dall’inseparabile cane Barabba, riuscirà a cambiare le giornate dell’uomo che si innamorerà di lei. Portandolo a confrontarsi con i ricordi, dolcissimi e spesso dolorosi, legati a Maria do Ceu. A una madre meravigliosa e ingombrante che, di tanto in tanto, appare in sogno al figlio. Per convincerlo a non abbandonarla nel limbo di una memoria mummificata e priva di passione.
Scritto con grande forza e umanità, elegante e capace di rompere gli schemi, doloroso ma anche pirotecnico, questo romanzo sui “Pranzi di famiglia” dei Dos Santos non si accontenta di risultare il seguito di un grande successo come “Ovunque io sia”. Anzi, porta Romana Petri ad abbandonare, in parte, il tono avventuroso, quasi picaresco del romanzo precedente, per consentirle di scrivere un libro meditato e niente affatto scontato sulla terribile complessità dei rapporti familiari. Sulle troppe maschere che bisogna indossare quando è impossibile essere se stessi fino in fondo. E, non ultimo, sulla possibilità di scorgere il lato ironico, grottesco, paradossale delle cose anche quando la tentazione di drammatizzare sarebbe più forte.
Ma, forse, per dire quanto “Ovunque io sia” e “Pranzi di famiglia” entrino di diritto tra i romanzi italiani più belli scritti negli ultimi vent’anni basterebbe ricordare che, messi assieme, sfiorano le mille pagine di testo. E che chi li ha letti entrambi comincia già ad aspettare la terza parte. Sperando ardentemente che a Romana Petri non servano altri undici anni per scriverla. Perché delle storie dei Dos Santos non ci si stanca.
<Alessandro Mezzena Lona<