Volevano forgiare l’Uomo Nuovo. Giravano film in cui i ragazzi, i pionieri del comunismo, erano la base da cui partire per sognare prima, e poi edificare, un mondo nuovo. In realtà, fin dall’indomani della Rivoluzione d’Ottobre, l’Unione Sovietica pullulava di bambini randagi. I cosiddetti Besprizornye. Sette milioni di adolescenti, solo se facciamo riferimento al 1922, vestiti di stracci, sporchi, affamati, che vagavano da soli, o in gruppi, per le città e le campagne. Destinati a morire per strada, nei Gulag, o a diventare criminali temutissimi. Un popolo invisibile, che ritorna adesso a parlare alle nostre coscienze distratte in un perturbante, bellissimo libro di Luciano Mecacci
Già ordinario di Psicologia generale all’Università di Firenze, esponente della Società italiana degli Slavisti, autore di un altro libro importante come “La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile”, Luciano Mecacci ha trascorso a Mosca un lungo periodo di studio. Tra il 1972 e il 1978. E dopo un appassionato, difficile lavoro di ricerca, durante il quale ha dovuto separare le fonti attendibili da quelle inquinate dalla propaganda e da un lavoro storiografico non obiettivo, ha scritto un saggio che tutti dovrebbero leggere. Si intitola “Besprizornye. Bambini randagi nella Russia Sovietica (1917-1935)”, lo pubblica Adelphi (pagg. 274, euro 22), ed è stato al centro di un incontro nell’ambito di BookCity Milano 2019.
Un silenzio imbarazzante, quello sui Besprizornye, soprattutto in Occidente. Tenendo conto che il problema dei bambini randagi ha segnato l’intera storia dell’Unione Sovietica. E non è risolto ancora oggi. Così, Luciano Mecacci è andato in cerca non solo delle rare, qualificate testimonianze di John Reed, quello dei “Dieci giorni che sconvolsero il mondo”, di sua moglie la giornalista Louise Bryant, dello scrittore Joseph Roth, del pittore Marc Chagall, di Indro Montanelli. Ma ha dovuto scandagliare gli archivi, ricostruire la vicenda attraverso i documenti storici, ascoltare testimonianze dirette. Fino a raggiungere un ritratto vivo e impressionante di questo viaggio nella vertigine dell’abbruttimento umano. Davanti al quale la società sovietica non ha mai saputo trovare rimedi efficaci. Se non imporre il silenzio, con apposito decreto firmato da Stalin nel 1935
“Ho studiato a Mosca nel periodo tra il 1972 e il 1978 – spiega Luciano Mecacci -. E posso dire che in quegli anni non si aveva assolutamente percezione della gravità del fenomeno dei Besprizornye, che coinvolgeva milioni di bambini, di adolescenti, nella Russia sovietica. Oggi aggiungo che se non teniamo conto dell’impatto fortissimo che ha avuto l’ingresso nella società di una massa così grande di ragazzi randagi, abituati ad affrontare la vita nel modo più disperato e violento, facciamo un errore gravissimo”.
Un fenomeno, quello dei Besprizornye, che non è legato solo alla Rivoluzione d’Ottobre, alla Grande guerra?
“No, l’orrore dei bambini abbandonati ha interessato l’Urss in una serie di ondate. Prima c’erano gli orfani della Grande guerra, poi quelli della Rivoluzione. Successivamente si moltiplicarono per le diverse carestie, del 1921 e 1922, e più tardi ancora per la Seconda guerra mondiale. Tanto che nel 1935, con un apposito decreto, Stalin stabilì che non se ne doveva parlare più. Perché capiva bene che questo problema gettava una luce sinistra sull’intera Unione Sovietica”.
E oggi, com’è la situazione?
“Se oggi digitiamo in rete, in caratteri cirillici, la parola Besprizornye, ci rendiamo conto che il fenomeno è vivo. E che gli orfanotrofi sovietici hanno continuato a funzionare anche nel nuovo Stato russo. Possiamo capire che l’argomento non piace alle autorità politiche ancora oggi”.
Ci sono testimonianze importanti…
“Quando ho riletto ‘Il dottor Živago’ di Boris Pasternak, che racconta l’epopea della Rivoluzione bolscevica e poi della guerra, alla luce dei miei studi sui bambini randagi mi sono accorto di una cosa che non avevo notato prima. Il romanzo si apre e chiude mettendo in scena una Besprizornye, che è Tanja. Quindi, se un grande scrittore ha fatto questa scelta significa che, per lui, il fenomeno dei bambini randagi era al centro della società sovietica in quegli anni. Potrei aggiungere che, in un altro passaggio del libro, Lara domanda al fratello di Živago se esiste un elenco dei ragazzi perduti. Attorno al 1922 erano stati stimati in sette milioni”.
Qual è stato il destino dei bambini randagi?
“Qualcuno dice: ci sono stati Besprizornye che si sono salvati. E hanno trovato un posto nella società sovietica.
Sappiamo anche che esiste una foto scattata il Primo maggio del 1919 sulla Piazza Rossa. Accanto a Lenin compare un orfano. Anni dopo venne riconosciuto in lui nientemeno che Nikolaj Dubinin, il più grande biologo sovietico del dopoguerra. Insignito del Premio Lenin e potentissimo componente dell’Accademia delle Scienze dell’Urss. Ma era falso. Faceva soltanto parte della propaganda trionfalistica che nascondeva gli aspetti più bui”.
Il suo libro verrà pubblicato in Russia?
“Per il momento uscirà l’edizione tedesca. Ma so che in Russia tanti vorrebbero che il problema dei Besprizornye venisse a galla, perché lo considerano uno dei tanti argomenti rimossi dall’orizzonte della loro storia”.
Si drogavano, mangiavano corpi umani per non morire di fame, finivano nei Gulag come invisibili…
“Già Aleksandr Solženicyn e Varlam Šalamov ci hanno raccontato, nei loro libri, quanto spaventoso fosse il destino dei Besprizornye che arrivavano nei Gulag. Ma sembravano sempre storie minori, rispetto a quelle vissute dalla massa dei prigionieri. E poi, l’ingresso nei lager diceva solo una parte della vicenda spaventosa dei milioni di bambini randagi”.
Diventavano più criminali dei criminali?
“Nei Gulag incutevano timore anche ai criminali più pericolosi. Perché, a loro, la vita non aveva risparmiato nulla. Dovevano difendersi imparando la legge della strada. Spesso venivano arruolati dalla Polizia o dall’Esercito come avanguardia di sfondamento. Non avevano più niente da perdere, e non temevano nemmeno di prendere parte agli assalti più rischiosi. Basti pensare che venivano paracadutati sul terreno di guerra senza avere mai fatto un lancio di prova”.
Formavano quasi un piccolo popolo a parte?
“Venivano quasi tutti da regioni periferiche dell’Urss. Elaboravano un loro linguaggio, un modo di parlare inconfondibile, si riconoscevano tra loro. Peccato solo che le ricerche sul campo svolte negli anni Venti si siano, poi, interrotte”.
Come mai tanto silenzio, anche in Occidente, sui Besprizornye?
“Risponderò così. Abbiamo un Giorno della Memoria, giustissimo, per non dimenticare l’Olocausto. Ma perché non parliamo del terrore sovietico.?Delle persone innocenti inghiottite dai Gulag, di cui le famiglie finivano per non avere più alcuna notizia. L’articolo 58 prevedeva condanne rinnovabili di cinque anni al colpo, per attività antisovietica. C’è gente che non è tornata mai. Oggi, poi, si continua a stare in silenzio. Comprensibile che non lo si faccia in Russia, ma in Occidente?”.
E il Vaticano?
“Mandò una missione per occuparsi dei Besprizornye. Ma durò al massimo un anno. Poi non se ne fece più nulla. Come se l’Unione Sovietica dovesse cavarsela da sola, e noi Occidente non fossimo autorizzati a immischiarci nei loro problemi”.
Si era pur reagito all’invasione dell’Ungheria, della Cecoslovacchia?
“Vero, però lì c’era un problema di libertà. Di rispetto dei diritti umani. Qui bisognava entrare nelle difficoltà specifiche dell’organizzazione sociale, delle famiglie, della vita quotidiana. E ammettere che la situazione era imbarazzante. Non c’era da mangiare, molte donne rimanevano vedove e non avevano la possibilità di mantenere i figli”.
Troppo silenzio, troppo a lungo?
“La memoria non è solo un rituale per ricordare i morti. È necessario chiedersi: come è stato possibile? E come possiamo tollerare che si ripeta di nuovo il dramma di mamme che imbarcano i loro figli verso un futuro di delinquenza, prostituzione, sottraendoli alla guerra, alla violenza, e sognando un futuro migliore? Allora, forse, dobbiamo ammettere che non riusciamo ad affrontare gli aspetti più crudeli della realtà. E, quindi, è più comodo occuparci dei grandi problemi ideologici, piuttosto che affrontare la vita reale delle persone”.
Abbiamo perso di vista l’uomo?
“Non è stato un gruppetto di fanatici a creare i lager in Germania. E neanche nell’Unione Sovietica, o nell’Italia fascista. Quindi, dobbiamo ammettere che il male è dentro le grandi civiltà. E se ci rifiutiamo di analizzare l’essere umano, continueremo ad addossare le colpe a questa o quella dittatura. A questa o quella ideologia, Sulla copertina del mio libro c’è l’immagine di uno dei Besprizornye sporco, stravolto, che esce da un cassonetto della spazzatura. Se non ci chiediamo com’è stato possibile, come abbiamo potuto fingere di non vedere tutto ciò, poi non possiamo meravigliarci quando, nel nostro tempo, altri bambini muoiono annegati. Perché l’indifferenza dell’oggi è figlia di quella di ieri”.
<Alessandro Mezzena Lona<