• 26/03/2020

Emmanuel Carrère, “I baffi” e la realtà deragliata

Emmanuel Carrère, “I baffi” e la realtà deragliata

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Nel 1986, qualcuno comincia a pensare che in Francia sia nato uno scrittore da tenere d’occhio. Si chiama Emmanuel Carrère, ha pubblicato un paio di romanzi. Ma, soprattutto, ha stupito i critici più attenti, e i lettori che non disdegnano i libri un po’ fuori rotta, con “Les mustaches”. Racconta la storia di un uomo, uno tra tanti, che un giorno decide di fare un gioco. Chiede a sua moglie: “Che ne diresti se mi tagliassi i baffi?” E Agnès risponde: “Sarebbe una buona idea”. Nessuno dei due immagina che un gesto così banale riuscirà ad aprire, nelle loro vite, un varco verso il baratro.

Anche in Italia, quel romanzo viene prontamente tradotto. Lo fa la casa editrice Theoria, nel 1987. Ma, certo, Emmanuel Carrère non riesce a catturare, allora, l’attenzione delle schiere di lettori che venticinque anni dopo lo incoroneranno scrittore dell’anno con “Limonov”. Soltanto oggi, “I baffi” può essere valutato per quel romanzo originale e perturbante che è. Ed è sicuro che la nuova traduzione firmata da Maurizia Balmelli, e la prestigiosa edizione Adelphi (pagg.150, euro 17), riusciranno ad attirare lo sguardo di un gran numero di persone.

E, allora, proviamo un po’ a capire come scatta la scintilla che innesca la nascita di una storia così particolare. La domanda di fondo del romanzo “I baffi” è evidente.  Emmanuel Carrère si chiede: può la realtà deviare all’improvviso? Può la vita di uno qualunque di noi cambiare rotta senza che ci sia il minimo segnale d’avviso? Lo scrittore prova a rispondere seguendo i passi sempre più incerti del suo protagonista. Un giovane uomo che, dopo essersi tagliato i baffi, si accorge che la moglie e i suoi più cari amici lo ricordano come uno che non ha mai avuto folta peluria sopra il labbro superiore. E poi, di giorno in giorno, scopre anche che il viaggio a Macao con Agnès non è mai avvenuto. Che perfino le numerose foto scattate laggiù non fanno parte della collezione di immagini custodire in casa, anche se lui le ricorda bene.

Ma c’è di più. Perfino i suoi colleghi di lavoro lo vedono strano. Smentiscono la versione dei fatti che lui fornisce su diversi episodi. E quando Agnès gli comunica che non può annullare il pranzo previsto dai suoi genitori, perché suo padre è morto (“L’anno scorso. Mi dispiace, mormorò Agnès posandogli timidamente la mano sulla spalla, fa male anche a me”), e che loro non hanno mai avuto due carissimi amici che si chiamano Serge e Véronique Scheffer, allora l’uomo senza più baffi capisce che la realtà attorno a lui si sta sgretolando.

Sta impazzendo? Oppure le persone attorno a lui complottano per fargli perdere la testa?

Oppure…

Ecco, appunto: oppure… Emmanuel Carrère, lo sa bene chi conosce i suoi libri, è sempre stato un lettore appassionato dei romanzi di Philip K. Dick. Tanto che, nel 1993, gli ha dedicato una splendida biografia romanzata dal titolo “Io sono vivo e voi siete morti”. In Italia è uscita per Theoria nel 1993, poi per Adelphi nel 2016. In quel libro, l’autore parigino ricorda un episodio che ha cambiato la vita dello scrittore americano nato a Chicago nel 1928, e morto a Santa Ana, California, nel 1982. Un giorno, a casa, mentre stava andando in bagno, cominciò a cercare furiosamente la catenella per accendere la luce.

Confuso e spaventato, Philip K. Dick chiamò sua moglie. E lei gli confermò che il loro impianto elettrico non prevedeva quel tipo di aggeggio. Non avevano mai acceso la luce tirando la catenella, ma premendo semplicemente l’interruttore sul muro. Cominciò da lì, nella mente del grande scrittore, una riflessione sugli ingannevoli meccanismi della realtà. E sulla possibilità che, nello stesso luogo e nello stesso momento, possano convivere, affiancato uno all’altro, diversi corridoi temporali. In ognuno dei quali sarebbe consentito sperimentare, alle stesse persone, versioni difformi dello stesso episodio. Idea che, poi, avrebbe sviluppato in numerosi romanzi: Da “La città sostituita” a “Tempo fuori di sesto”, da “Mary e il gigante” a “Ubik”.

Ecco, il protagonista de  “I baffi” si inserisce perfettamente nella galleria di personaggi dickiani. Uomini e donne del tutto normali, del tutto anonimi, che all’improvviso si trovano a esplorare situazioni prive di una logica. apparente In cui la follia confina con la possibilità che la realtà, quella immutabile di ogni nostra giornata, possa albergare dentro sé altre dimensioni. Differenti solo in piccolissima parte. Eppure destinate, grazie a quella imperscrutabile sfasatura, a raccontare il nostro divenire in. maniera del tutto diversa.

Emmanuel Carrère è molto bravo a raccontare la storia de “I baffi” con un ritmo implacabile, uno stile mai sopra le righe, una lingua che evita le iperboli, che si tiene più vicina che può alla normalità della vita. E che, proprio per questo, fa deflagrare, pagina dopo pagina, l’inquietudine del lettore. Costretto a divorare il romanzo senza sosta. Per sapere se può esserci una via d’uscita a quell’incubo. Senza deragliare, come un treno che non ha più nessuno a guidarlo sulla rassicurante monotonia dei binari.

<Alessandro Mezzena Lona<

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