• 27/03/2020

Gian Mario Villalta, “L’apprendista” scruta la vita dalla sacrestia

Gian Mario Villalta, “L’apprendista” scruta la vita dalla sacrestia

Gian Mario Villalta, “L’apprendista” scruta la vita dalla sacrestia 1024 576 alemezlo
Per leggere le carte alla vita non servono palcoscenici importanti. Anzi, spesso sono i luoghi più defilati, anonimi, quasi invisibili, che aiutano a raccogliere meglio le voci del mondo di fuori. Vecchie portinerie, botteghe sopravvissute all’avanzata dei pachidermi della grande distribuzione, aule sperdute in qualche scuoletta di periferia. Oppure le microscopiche sacrestie di imponenti chiese. Luoghi di culto dieci volti più alti delle case che li circondano. Capaci di incutere timore anche in chi non crede nella catena di montaggio di messe, matrimoni, battesimi, confessioni, comunioni, cresime, funerali. Perché è lì dentro, spesso, che si percepisce in maniera nitida il battito cardiaco della realtà. Quando accelera troppo, quando rallenta in maniera anomala. Quando rischia di fermarsi.

Ed è lì che Gian Mario Villalta messe in scena il suo nuovo romanzo. Nella sacrestia di una chiesa di uno dei tanti paesoni del Nordest. A due passi da Pordenone, in quella terra di mezzo che sta tra il Friuli e il Veneto. Si intitola “L’apprendista”, lo pubblica la casa editrice milanese SEM (pagg. 228, euro 17). È stato selezionato tra i dodici libri che si giocheranno l’ingresso nella cinquina del Premio Strega 2020. E ha buone possibilità di arrivarci, in finale. Perché è un libro che mette in tavola le sue carte narrative con grande cura, precisione e originalità.

Non è facile promuovere a centro di gravità di un romanzo due personaggi all’apparenza così normali e prevedibili, da far pensare che le loro vite si svolgano sul ritmo infallibile di un metronomo. Perché Fredi e Tilio sembrano due figure secondarie di un drammone come “Il servo di scena”, il film di Peter Yates tratto dall’omonima commedia di Ronald Harwood. Ma attorno a loro non ci sono tipi carismatici come Sir, il vecchio attore shakespeariano interpretato da Albert Finney, e nemmeno come il suo servo di scena Normasn, che ha il volto di Tom Courtenay. Ne “L’apprendista” di Gian Mario Villalta il peso della storia grava tutto sulle loro gracili spalle. Uno scorbutico, metodico, inamovibile, aggrappato come un naufrago alle regole, il sacrestano, e l’altro, il suo aiutante non troppo gradito, più legato ai desideri, ai rimpianti. Più incline a mettere in discussione gli ordini, a ragionare con la propria testa.

Gian Mario Villalta conosce molto bene tutto il repertorio, da nostalgico modernariato, di quel piccolo mondo di provincia. Lo ha raccontato in romanzi splendidi, come i più recenti “Bestia da latte” e “L’olmo grande”, ma anche in molte poesie di “Vedere al buio” e “Vanità della mente”. In particolare quelle scritte nel dialetto del suo borgo natio, Visinale. Ma questa volta, nel costruire “L’apprendista”, si spinge un passo più in là. Perché costringe i suoi due personaggi a guardare il mondo dal profondo di un luogo sospeso nel tempo e nello spazio: la sacrestia di una chiesa, appunto. Li porta a rievocare la propria vita, e quella degli altri, dei compaesani, delle persone amate e detestate, li spinge a guardare il presente come se lo vedessero dal punto d’osservazione di un cannocchiale rovesciato. Perché è sempre il passato, il déjà vu, che si frappone tra quello che stanno vivendo e la presenza ingombrante dei ricordi.

Fredi è un uomo che ha dovuto aggrapparsi alle regole per non farsi spazzare via dalla vita. Per lui, il servizio da sacrestano va fatto soltanto seguendo il suo metodo: con rigore implacabile, senza discutere, lavorando fino a sfinirsi. Tilio, invece, nel mare grande dei giorni si è immerso senza porsi troppe domande. E quando il Destino ha deciso di portargli via la sua Irma, con cui contava di concludere il suo percorso terreno “finché che morte non ci separi”, non si è fatto troppi problemi a sfidare le maldicenze del paese iniziando una liaison amorosa con la badante della moglie, l’ucraina Veronika. Anche se, a dire il vero, poi gli è mancato il coraggio di trasformare quella storia clandestina in un solido rapporto, alla luce del sole.

Normale che, tra i due, non possa stabilirsi altro che un rapporto di mal sofferta sudditanza, da parte di Tilio, e di malcelata insofferenza, da parte di Fredi. Perché l’uno interpreta la vita in maniera molto più elastica, più fantasiosa.  Godereccia, per quel che si può. E non capisce una religione che caccia dalla chiesa il mendicante Sigàgno per predicare subito dopo, in maniera aulica e terribilmente astratta, la parola di un Dio che dice “beati i poveri”. L’altro, invece, si aggrappa alla regola, al dogma, alle parole incontestabili del Don, per non dover attivare la libertà di pensiero. E per schermarsi da tutte le dicerie, i sussurri, le maldicenze che arrivano da oltre la porta della canonica. Da una realtà che ha venduto l’anima a un consumismo sfrenato, mascherato da progresso. Da un mondo dove i cambiamenti delle abitudini e del clima porteranno inesorabilmente a celebrare le messe via internet: “Così ognuno sta a casa sua, sui ventun gradi fissi”.

Ma è proprio in questo sottile rapporto di diffidenza e malcelata insofferenza che Fredi e Tilio finiranno per trovare un terreno comune su cui dialogare. E sarà nel ricordo delle ferite che la vita ha inflitto loro, nel rimpianto di un tempo che è andato per sempre, e non ritornerà, nella difficoltà a capire il nuovo volto del paese, dove la gente sembra navigare a vista senza poter più seguire delle coordinate precise, che i due uomini finiranno per avvicinarsi. Per trovare quella sintonia minima, quella solidarietà da naufraghi, che forse consentirà loro di non lasciarsi travolgere dalla realtà.

Costruito su un andamento lento, raccontato con un’attenzione speciale per i dettagli, gli stati d’animo, le sfumature linguistiche, “L’apprendista” conferma la capacità di Gian Mario Villalta di scrutare la realtà del nostro presente senza lasciarsi trasportare da un’irrazionale nostalgia per il passato. Perché questo nuovo romanzo del direttore del Festival letterario pordenonelegge ha la forza di un osservatore neutrale. Che guarda e racconta, senza giudicare. Di un testimone che sta in perfetto equilibrio tra oggi e ieri. E che, al tempo stesso, annota con attenzione da entomologo i moti dell’anima, gli smarrimenti, gli attimi di fugace felicità, le disattenzioni e le malvagità, ma anche i sogni e le paure di un mondo che rischia di perdere la propria anima. “Perché ognuno vorrebbe che tutto fosse come i canali tivù, le bibite all’ipermercato, mille offerte, così crede di essere lui che decide”.

<Alessandro Mezzena Lona<

[contact-form-7 404 "Not Found"]