“Nisida è un’isola e nessuno lo sa”, cantava nel 1982 Edoardo Bennato. Il ritmo era quello di un solare reggae, il testo in apparenza molto leggero e vacanziero. Anche se, in realtà, attirava l’attenzione su un piccolo paradiso delle Isole Flegree che, da tempo, è inavvicinabile. Perché ospita l’Istituto penale minorile di Napoli. Il carcere, insomma, dove vengono rinchiusi i minorenni che infrangono la legge. Nisida è anche il non luogo dove, appena arrivi davanti alla sbarra che blocca chiunque chieda di essere ammesso in quel mondo chiuso, “perde ogni diritto civile, ogni sostanza acquisita nel tempo, non sono più nessuno, né una laureata, né un’insegnante che ha vinto concorsi, che ha fatto anni di supplenze al nord e sa rispondere male a chi non rispetta la fila”.
E pensare che, ogni volta a Nisida, “mi devo continuamente ricollocare, riposizionare, guardarmi le spalle e dentro, e poi passare di livella sul giudizio” . A parlare è una donna. Un’insegnante. Si chiama Elisabetta Maiorano, è stata incaricata di portare il Verbo della matematica ai giovani detenuti che sono rinchiusi nell’isola. Da lei, dalle sue riflessioni, dal disagio che prova ogni volta che varca quella soglia, prende forma il romanzo di Valeria Parrella “Almarina”, pubblicato da Einaudi (pagg. 129, euro 17). Selezionato tra i dodici libri da cui, poi, verrà formata la cinquina dei finalisti al Premio Strega 2020, riporta l’attenzione dei lettori sulla scrittrice napoletana. Che nel 2003 aveva conquistato la giuria del Campiello Opera Prima con la raccolta di racconti “Mosca più balena”, pubblicata da minimum fax.
Napoli sembra lontanissima, vista da Nisida. Il mondo, un’ipotesi. Dietro le sbarre del carcere minorile si incontrano, e si scontrano, due pianeti con le loro regole contrapposte. Ci sono le leggi, non codificate, imposte da realtà parallele e fortissime come la camorra, la mafia, la malavita che arruola disperati e emarginati. E ci sono le leggi dello Stato, di chi deve difendere l’ordine costituito. In mezzo, sorta di impossibile trait d’union tra queste due realtà, si trova Elisabetta Maiorano. Una donna forte e fragile al tempo stesso. Una moglie rimasta vedova troppo presto. Una mamma che non è mai riuscita ad avere un figlio tutto suo. Nemmeno quando ha provato ad addentrarsi nella foresta di fittissimi, e spesso incomprensibili, dettami sull’adozione di bambini.
Insegnare ai ragazzi di Nisida la matematica è tutt’altro che facile. Perché la vita, lì dentro, si propone con ben altra forza. Impone delicati compromessi, tiene a bada a stento una violenza sempre pronta a esplodere, ripete ogni giorno domande inquiete, perturbanti, sul futuro. Fa dei teoremi, dell’astratto fascino della materia, qualcosa di irraggiungibile, assurdo e razionalissimo. E questo tempo sospeso non accenna a cambiare fino a quando, in classe, non compare Almarina. È scappata dalla Romania, insieme al fratello. Si porta dietro una storia di violenza in famiglia. Si sforza di studiare, di partecipare alle lezioni, anche se le ombre di quello che si è lasciata alle spalle pesano come macigni.
Tutti gli studenti, dentro le aule di Nisida, dove non ci sono sbarre, ma un agente penitenziario che non perde di vista per un attimo la classe, sembrano vivere una condizione del tutto transitoria. Sono lì, ma all’improvviso potrebbero essere trasferiti altrove. Elisabetta Maiorano si lascia coinvolgere, giorno dopo giorno, dalla vita precaria di Almarina. E si convince che la ragazza meriti un futuro. Che abbia il diritto di riabbracciare suo fratello, diviso da lei all’arrivo in Italia e mai più rivisto. Perché il giudice ha deciso che, dividendoli, sarebbe stato più facile per entrambi provare a costruirsi una vita nuova. Senza tenere conto dei sentimenti, della nostalgia. Del rimorso, per la ragazza, di non aver saputo essere una figura necessaria e positiva nel nuovo mondo di Arban.
E allora la prof ci prova. Prima riesce a ottenere dal direttore del carcere, e dal giudice di sorveglianza, il permesso di portare a casa Almarina per festeggiare insieme i giorni della fine dell’anno. Poi, decide di superare tutta l’amarezza e la rabbia già provate quando, con suo marito, tentarono di adottare un bambino. Vuole sfidare le notti insonni, la stupida tentacolare burocrazia, i pregiudizi della società e di chi gestisce la macchina dell’affidamento dei ragazzi (“una persona sola non può occuparsi di una ragazza che ha tanti problemi”), l’ansia e l’incertezza.
Scavato nella pietra dura di una lingua precisa, essenziale, implacabile, eppure umanissima, mai tentato dalla voglia di lasciarsi trasportare da una troppo facile deriva sentimentale, dove ogni problema trova in fretta il suo happy end, “Almarina” è un romanzo che sa raccontare il dramma dei ragazzi perduti. Di chi ha costellato il proprio passato di errori, e davanti a sé non può più scorgere un futuro. “Vederli andare via è la cosa più difficile – scrive Valeria Parrella -, perché: dove andranno? Sono ancora così piccoli, e torneranno da dove sono venuti, e dove sono venuti è il motivo per cui stanno qui”.
Ma “Almarina” è anche un libro sulla forza che si nasconde dentro la fragilità di una donna. Sul coraggio, pieno di dubbi e di attimi di sconforto, di una professoressa qualunque che non si rassegna ad accettare un sistema di rieducazione di chi ha sbagliato capace soltanto di riconsegnare quelle persone tra le braccia dell’emarginazione. Della disperazione. Spingendoli, inevitabilmente, a sbagliare di nuovo.
Senza mai presumere di essere un eroe, Elisabetta Maiorano esercita in “Almarina” la libertà di non arrendersi. E la speranza di cambiare le cose. Perché non può chiudere gli occhi davanti al tenebroso incanto di Nisida, dove il destino dei ragazzi, di chi dovrebbe rappresentare il futuro, è sepolto dietro un silenzio e una solitudine che fanno paura.
<Alessandro Mezzena Lona<