• 07/11/2020

Giacomo Debenedetti, un critico inquieto e onesto nella tempesta del ‘900

Giacomo Debenedetti, un critico inquieto e onesto nella tempesta del ‘900

Giacomo Debenedetti, un critico inquieto e onesto nella tempesta del ‘900 900 450 alemezlo
“La mamma non ha mai voluto raccontare a Elisa e a me le favole”. Non perché non le conoscesse, o non avesse voglia di farlo, scrive Antonio Debenedetti nel suo libro “Giacomino”. Semplicemente preferiva narrare le storie di un’altro mondo incantato. Quello della sua giovinezza. In cui lei, Renata Orengo, era una ragazza dai lunghi capelli d’oro, e lui, Giacomo Debenedetti, spalancava davanti ai suoi occhi le porte di un mitico reame popolato di pittori, di poeti, di maestri della pittura e delle arti. Non è difficile immaginare, allora, che quella fiaba così reale, e così scintillante di magiche promesse, iniziasse con il classico: c’era una volta.

Ma come in ogni favola che si rispetti, dopo il c’era una volta è normale aspettarsi lo svolgersi di una storia piena di meraviglie e delusioni, sogni e incubi, giornate rischiarate da un sole luminoso e altre rabbuiate da nuvole nere, o da una fitta nebbia. Esattamente com’è stata la vita di quello che viene considerato il più grande critico e studioso di letteratura del ‘900 italiano: Giacomo Debenedetti. E della moglie, Renata Orengo, una ragazza di ottima famiglia, che ha dedicato la sua vita a quel ragazzo brillantissimo, a quell’uomo inquieto e geniale, con i piedi piantati al centro della cultura europea del Ventesimo secolo.

Una storia che ha legato Giacomo e Renata fin da quando lei aveva 12 anni e lui 18. Fin da quando, insomma, i loro sguardi si sono incrociati una sera d’inverno del 1919 al Teatro Regio di Torino.

Quella favola, che diventa presto storia, sconfina nella tragedia per trasformarsi, alla fine, nello specchio di un tempo complicato e splendido. Riflesso nitido e appassionato di un’Italia fermamente decisa a non arrendersi alle guerre, ai troppi morti, all’orrore delle deportazioni, che ha dettato un libro bellissimo a Anna Folli. giornalista, scrittrice, autrice di programmi radiofonici, che ha curato il Festival di letteratura e musica Le Corde dell’Anima. Si intitola “La casa dalle finestre sempre accese”, lo pubblica la casa editrice Neri Pozza (pagg. 254, euro 18). E arriva a due anni di distanza da una altro volume che l’autrice ha dedicato a due grandi protagonisti della cultura italiana: “MoranteMoravia. Storia di un amore”.

Un lungo, appassionato lavoro, quello fatto da Anna Folli negli archivi, al Gabinetto Viesseux di Firenze, alla Fondazione Mondadori di Milano, per leggere documenti, carte, lettere. “Soprattutto gli epistolari – spiega -, che non sono mai scritti pensando ai posteri”. Missive che rivelano, ad esempio, come la moglie Renata scrivesse moltissimo, più del marito.. Uno dei suoi interlocutori preferiti era Guglielmo Alberti, grande amico di entrambi i coniugi Debenedetti fin dalla giovinezza, a cui inviava una lettera quasi ogni giorno.

Alcune di quelle lettere rivelano quanto Renata Orengo sia rimasta aggrappata al suo amore per Giacomino al di là di tutto. Basterebbe leggere le parole che scriveva all’amica, la grande scrittrice Alba de Céspedes, mentre stava lavorando alla pubblicazione delle carte inedite di Debenedetti, morto il 20 gennaio del 1967: “Mi alzo al mattino presto e lavoro, e lavoro tutto il giorno: alla sera, come un rito, mi siedo a tavola sotto la lampada, forse aspetto solo che Giacomo si sieda in faccia a me; perché questo avvenisse per un attimo, un secondo, darei la vita. Guardarci, ora che è tutto chiaro, con la stessa limpidità di quando ci guardavamo ragazzi…”.

L’autrice de “La casa dalle finestre sempre accese”, però, non si è accontentata solo della grande mole di carta consultata. Ha voluto incontrare i figli del grande critico, Elisa e Antonio, i suoi allievi e tutti quelli che conservano un ricordo di Giacomino.

Documentatissimo, pieno di Storia e di storie, capace di attraversare una buona parte del ‘900 con la felicità di un romanzo, “La casa dalle finestre sempre accese” non segue soltanto le tracce di Giacomo Debenedetti, intellettuale ebreo dotato di grande intelligenza e lucidità, fondatore della rivista “Primo Tempo”, vero ambasciatore della grandezza di Marcel Proust in Italia, giurato eccellente di Premi letterari come il Viareggio e lo Strega, autore di testi fondamentali come i “Saggi critici”, centro di gravità di un progetto editoriale ambizioso e innovativo come Il Saggiatore. Ma ricostruisce anche il mondo che ruotava attorno al critico. Popolato dai nomi più apprezzati e importanti della narrativa, della poesia, dell’arte.

Critico che non faceva sconti a nessuno, nemmeno agli amici scrittori, perché se un libro non gli piaceva lo diceva molto apertamente, Giacomo Debenedetti è stato forse un intellettuale troppo avanti rispetto ai suoi tempi. Capace di lavorare per il cinema, di occuparsi di notizie come un giornalista alla Settimana Incom, il cinegiornale trasmesso nelle sale cinematografiche tra il 1946 e il 1965. Sempre pronto a difendere il valore, la bellezza, di un opera letteraria da giurato del Viareggio, prima, e poi dello Strega. Battendosi per gli autori che reputava più bravi. Senza lesinare frecciate polemiche a chi non apprezzava. Tanto da attirarsi, negli anni, anche molte antipatie.

E forse proprio quel suo non volere mai scendere mai a patti con nessuno  è stata una delle cause che ha portato Giacomo Debenedetti a conoscere la più grande delusione della sua vita. Cioè, la bocciatura ribadita per tre volte all’esame per ottenere la libera docenza, che gli avrebbe permesso di ottenere una cattedra universitaria. Umiliazione ribadita dall’ultima commissione esaminatrice anche nei giorni in cui il grande critico si avvicinava alla morte, in seguito a un infarto

“La famiglia dio Giacomo Debenedetti e di Renata Orengo si è trovata al centro del mondo intellettuale, prima e dopo la Seconda guerra mondiale – spiega Anna Folli -. E questa è uno degli aspetti più affascinanti della loro storia più affascinanti, che mi ha spinta a scrivere ‘La casa dalle finestre sempre accese’. Volevo, infatti, che i lettori incontrassero questo mondo di scrittori, artisti, critici, che hanno forgiato la cultura del nostro ‘900. Che conoscessero da vicino il loro pensiero, i sogni, i libri che hanno lasciato. Proprio per capire, in un momento come questo, quanto la cultura sia stata uno dei punti di forza per la rinascita dell’Italia. Grazie a uomini e donne che hanno creduto davvero nella letteratura, nella poesia, nella pittura, nella musica. E non hanno mai rinunciato a questa loro fiducia nel sapere, nella conoscenza, nella creatività, nella bellezza. Nemmeno nei giorni terribili in cui gli ebrei venivano avviati verso la morte nei lager”.

Attorno a loro c’erano i grandi nomi della cultura di quegli anni?

“Raccontando i Debenedetti, si possono incontrare Piero Gobetti, Sergio Solmi, Mario Soldati, Eugenio Montale, Natalino Sapegno, Carlo Levi. E moltissimi altri protagonisti di un momento storico terribile e straordinario. Umberto Saba è stato per lui molto più di un amico. Era il padre che Giacomo aveva perso troppo presto, così come il poeta triestino lo considerava il figlio maschio che non aveva mai avuto. Gli scriveva lettere straordinarie, molto sentimentali. Dava giudici centratissimi su quello che andava scrivendo, spesso severi. Af esempio, gli diceva: tu sei un bravo violinista che non sa ancora cosa deve suonare. Dopo la guerra, l’autore del ‘Canzoniere’ è rimasto a lungo accanto a Giacomino, a casa sua, tanto da diventare per i figli Elisa e Antonio una sorta di nonno acquisito”.

Giacomo Debenedetti ha perso i genitori molto presto. Un lutto che non ha mai superato?

“Per lui, il ricordo dei genitori morti quando aveva 16 anni, a distanza di dodici mesi l’uno dall’altra, è legato in maniera indissolubili al suo essere e sentirsi ebreo. Giacomo era fondamentalmente un laico, anche se a volte frequentava la sinagoga. E, alla fine, ha avuto un funerale religioso. C’è un episodio che raccontava la moglie Renata. E che dice bene quanto Debenedetti fosse legato alla tradizione ebraica rispettata da mamma e papà”.

Quale episodio?

“Quando si avvicinava Yom Kippur, la ricorrenza religiosa ebraica che celebra il giorno dell’espiazione, lui fingeva di avere dei problemi allo stomaco. Mentiva, dicendo di non avere digerito bene. Forse per non confessare che avrebbe rispettato il precetto di digiunare. Poi, quando è iniziata la persecuzione contro gli ebrei, ancora più forte si è fatto il suo sentimento di appartenenza”.

Senso di appartenenza che gli ha dettato pagine bellissime?

“Indubbiamente, uno dei suoi libri più belli non segue le traiettorie della critica, ma quelle della narrativa. ’16 Ottobre 1943′ lo scrisse di getto, raccontando il giorno terribile in cui i soldati del Terzo Reich entrarono nel ghetto di Roma e deportarono un numero impressionante di uomini, donne, bambini. Ed è un racconto che testimonia il suo sguardo terrorizzato, addolorato, dalle finestre di una casa di amici. Quello sgomento lo segnerà in profondità, tanto da suggerirgli l’idea di consegnarsi ai nazisti e dire: ‘Anch’io sono ebreo come loro’. Interessante è notare come la sua prosa, nel racconto, si fa secca, tagliente. Non ha niente a che vedere con lo stile colto e ricchissimo delle pagine di critica letteraria”.

Fin da ragazzo era considerato una delle grandi promesse della cultura…

“Era uno studente brillante, molto intelligente. È arrivato a laurearsi per ben due volte, in Giurisprudenza e Lettere, ma si era iscritto anche al Politecnico e amava molto la matematica. I suoi professori lo adoravano, gli hanno fatto saltare un anno di liceo perché si rendevano conto che era molto avanti rispetto ai compagni di scuola. Se lui, sull’onda di questo successo, avesse deciso di fermarsi all’università, gli sarebbe stato facile intraprendere la carriera accademica. E sarebbe arrivato prima alla libera docenza, poi a una cattedra da professore”.

E invece?

“All’inizio del suo percorso non desiderava seguire questo schema troppo rigido. Giacomo Debenedetti si pensava prima di tutto scrittore, poi critico letterario. Nella seconda parte della sua vita ha ottenuto alcuni incarichi universitari. E ha scoperto una grande passione per l’insegnamento. Tanto da essere amatissimo dai suoi studenti. Ho raccolto diverse testimonianze di chi è stato suo allievo prima a Messina, poi a Roma. Tutti confermano che era un vero maestro. Perché non si limitava a svolgere il programma, si appassionava a consigliare libri da leggere, portava i ragazzi al cinema, intavolava con loro lunghe discussioni. Ad alcuni ha cambiato la vita, proprio perché era un professore fuori dagli schemi”.

Questo suo essere fuori dagli schemi lo ha messo in cattiva luce agli occhi degli accademici?

“Non gli hanno mai perdonato di essere il più importante critico del ‘900 italiano, pur senza rinunciare alla propria libertà. Così, quando si è presentato all’esame per ottenere la libera docenza, è stato bocciato per ben tre volte. L’ultimo giudizio negativo è stato espresso dalla commissione proprio nei giorni in cui stava morendo. Pur riconoscendogli i cospicui meriti acquisiti nella complessiva e varia attività svolta nell’ambito della cultura letteraria del ‘900, si sottolineava il fatto che avesse scritto troppo poco”.

Scriveva di cinema, lavorava per la Settimana Incom, per il Saggiatore: era troppo avanti per il suo tempo?

“Era una figura eclettica. Molto avanti rispetto al tempo in cui viveva. Non solo scriveva di cinema, ma aveva anche collaborato come sceneggiatore con parecchi registi al fianco di Sergio Amidei. L’avventura iniziata con Alberto Mondadori al Saggiatore ha segnato la storia della cultura italiana di quegli anni. Sono usciti libri che possiamo considerare vere pietre miliare, Il problema è che l’editore, pur animato da una grande passione, non aveva ereditato dal padre Arnoldo l’attenzione per la parte economica della sua attività. Fondamentale per non far naufragare i propri sogni, come poi è accaduto quando le spese hanno superato di gran lunga i guadagni”.

Un destino di fallimento legato al rapporto padre-figlio in casa Mondadori?

“Alberto amava molto e stimava suo padre. Però, poi, finiva sempre per litigare con Arnoldo. Per questo voleva dimostrare di essere altrettanto bravo di chi aveva fondato l’impero Mondadori. Emblematica è la storia della casa sulle colline sopra Camaiore donata da Arnoldo ad Alberto. Lui, dopo un po’, la fece abbattere e la ricostruì dalle fondamenta come fosse un’opera d’arte. Sui pavimenti di cotto csi possono vedere ancora i disegni fatti da Marc Chagall. In Giacomo Debenedetti aveva visto la figura di un padre intellettuale che potesse finalmente apprezzarlo. Erano legatissimi. Ci sono lettere negli archivi che dimostrano la loro grande sintonia intellettuale e l’affetto”.

Poi le cose hanno iniziato ad andare male.

“Capita sempre così, quando i conti non tornano, si corre subito a cercare un colpevole. Ma Debenedetti non era coinvolto affatto nella gestione economica del Saggiatore. Non sarebbe stato nemmeno capace di farlo. Aveva altri compiti e altre qualità. Tra cui quella di creare collane bellissime come quella delle Silerchie”.

Bocciature universitarie e fine del rapporto con il Saggiatore hanno accelerato la sua morte?

“E indubbio che le ripetute bocciature alla libera docente, sommate a quello che di fatto diventerà un licenziamento dal Saggiatore, hanno fatto male al cuore di Debenedetti. Che, non ha caso, è morto in seguito a un infarto”.

Splendida la figura della moglie Renata…

“Vorrei che, da questo libro, emergesse la figura di Renata Orengo. Una donna eccezionale, che ha saputo dare forma alla grandezza del marito dopo la morte di lui. Perché non dimentichiamo che i testi più importanti di Giacomo Debenedetti sono usciti dopo la sua morte, grazie al lavoro oscuro, ma preziosissimo e puntuale, fatto dalla moglie sulle carte lasciate dal grande critico e studioso della letteratura. Lei gli è sempre stata vicino, anche quando lui si era innamorato di altre donne”.

<Alessandro Mezzena Lona

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