• 22/02/2021

Gila Almagor, oltre il muro del silenzio e della follia

Gila Almagor, oltre il muro del silenzio e della follia

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C’è una foto, prima che il testo faccia sentire la sua voce. Inquadra Gila Almagor sul set del film “The summer of Aviha”, tratto dall’omonimo racconto lungo. La First Lady del teatro e del cinema israeliano è davanti a uno specchio, insieme a un’altra attrice. L’immagine che la riflette fa parte della finzione scenica. Eppure, restituisce in tutta la sua limpida drammaticità la sua storia più intima. Quella di una ragazzina cresciuta, nella Israele dei primi anni Cinquanta, amando con tutta se stessa una madre tormentata da ricorrenti turbe psichiche.

Subito dopo l’immagine, che consegna agli occhi chi la guarda la perturbante forza di un bianco e nero un po’ sfumato, arrivano le parole. Un sorta di dedica dal significato profondo. Perché scrivendo all’inizio de “L’estate di Aviha”, tradotto per la prima volta in italiano da Paola M. Rubini e pubblicato dalla casa editrice Acquario (pagg. 123, euro 12) nella collana Bootleg, Gila Almagor vuole far sapere al lettore che lei ha rotto il silenzio. Ha valicato quel muro fatto di parole non dette dietro cui si era trincerata sua madre. Per troppo tempo.

“Un racconto che ho narrato per emigrare nel suo seguito”, scrive Gila Almagor prima che fluisca la storia de “L’estate di Aviha”. Perché l’attrice, una delle figure culturali più popolari d’Israele, si è imposta di non ripetere con sua figlia gli errori compiuti da sua madre. Quello di non raccontarle la deportazione di gran parte della famiglia materna dal villaggio di Kashnow, in Polonia, al campo div sterminio di Auschwitz. Di non dirle nulla della sua fuga dallo shtetl, insieme a un fratello, prima che il genitore rabbino e gli altri familiari venissero avviati alla morte nei lager. Di tacere la morte drammatica nel 1939 del padre di Gila, pochi mesi prima che lei nascesse. Fulminato dalla pallottola di un cecchino arabo a Haifa, dove Max Alexandrowitz si era arruolato nella Polizia britannica.

È da lì, da quel desiderio forte, dall’urgenza di raccontare, che è nata “L’estate di Aviha”. Una storia con le radici che affondano nella vita difficile e bellissima di Gioia Niente Paura, come suona in italiano Gila Almagor. Uno sguardo coraggioso e impietoso sull”incapacità di accettare l’altro. Soprattutto se, dopo aver sofferto gli orrori della persecuzione nazista contro gli ebrei, si trova a dover combattere le ombre buie della propria mente. Gli spaventi profondissimi vissuti in prima persona, seppelliti negli angoli più lontani della memoria. Però mai rimossi, e capaci proprio per questo di ritornare a manifestarsi all’improvviso, per dare corpo a un’inquietudine incontenibile.

Aviha è una ragazzina di dieci anni dal nome strano. Non riesce a capire, infatti, perché l’abbiano chiamata con quella incomprensibile variazione di Aviva. Ma proprio lì, nel significato del nome, che in italiano suona come “il padre di lei”, sta il filo segreto della storia. La bambina, infatti, non sa niente di papà. Conserva soltanto alcune fotografie, in una busta marrone, che un giorno è riuscita a sottrarre alla mamma. Facendo l’impossibile perché non se ne accorga.

Quando la madre supera la fase acuta della sua depressione, comincia per Aviha una nuova vita. Abbandona l’istituto dove l’avevano parcheggiata, ritorna a trascorrere l’estate accanto alla persona che ama di più. E non importa se la loro casa è soltanto una baracca schiacciata in mezzo a tante case belle in quella comunità di israeliani immigrati dall’Europa. Perché lei, lì, si sente felice. Almeno fino a quando compare un misterioso signor Ganz, accompagnato dalla famiglia, che assomiglia parecchio all’uomo delle fotografie custodite nella busta marrone.

Ganz comincia a frequentare la bellissima madre di Aviha, prendendo a prestito la scusa di farle lavare e stirare la biancheria di casa. Ma il suo arrivo, e la repentina ripartenza dell’uomo, i troppi silenzi e le parole sussurrate a mezza voce, non sono l’antidoto migliore per blandire l’inquietudine della donna. Se non bastasse, ad aggravare la situazione sarà la ribellione violenta della ragazzina contro il dileggio continuo contro di lei e la madre a far precipitare la situazione. Perché non si può accettare di essere emarginati per la mancanza di soldi, di uno status sociale influente, per un passato di persecuzioni mai raccontate. Perfino per il fatto che ad Aviha verranno rasati a zero i capelli, infestati dai pidocchi. E che lei non rientrerà nello standard delle signorinette tutte agghindate che prendono lezione di pianoforte o di danza.

Capace di dare voce allo smarrimento della Dor Sheni, la seconda generazione di Israele, cioè i figli dei sopravvissuti alla Shoah nati nella Palestina Mandataria, che hanno dovuto crescere scontrandosi con il muro di silenzio alzato dai propri genitori sugli orrori del passato, “L’estate di Aviha” ha il fascino luminoso di un racconto di formazione originale e intenso. Dove Gila Almagor dà voce allo straniamento di un’adolescente in bilico tra l’amore totale per una madre che, dopo quell’estate, verrà inghiottita dal maelstrom della follia, e l’ostilità di una società meschina, incapace di provare empatia e solidarietà.

Per senza compiacersi mai in maniera visibile del proprio talento di scrittrice, Gila Almagor costruisce questo piccolo, sorprendente libro, con uno stile narrativo secco, diretto, libero da inutili preziosismi letterari. Ed è capace di regalare pagine memorabili. Come quelle in cui Aviha, la sera nella stanza dell’istituto, bacia la lettera della madre esattamente nel punto dove lei ha appoggiato le sue labbra. O come quelle in cui la bambina, dal palcoscenico della recita scolastica, vede arrivare la madre tra il pubblico. Bellissima con la sua gonna blu e la camicia bianca dalle maniche troppo corte, perché “a me non piaceva che alla mamma vedessero il numero sopra la mano”.

A impreziosire questo nuova uscita editoriale di Acquario, in fondo al volume c’è un disegno inedito di Roberto Bazlen. Il leggendario Bobi, lettore di sterminata e raffinata conoscenza, capace di far scoprire agli editori prima, e ai lettori poi, maestri della letteratura come Italo Svevo, Robert Musil e molti altri.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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