• 25/07/2021

Giulia Caminito: “Madre e figlia, così lontane così vicine”

Giulia Caminito: “Madre e figlia, così lontane così vicine”

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Con i premi letterari, Giulia Caminito è entrata presto in confidenza. Se è vero che fin dal suo romanzo di debutto, “La grande A”, nel 2016 ha collezionato il Premio Bagutta Opera prima, il Giuseppe Berto e il Vitaliano Brancati sezione Giovani. Nel 2019, poi, con “Un giorno verrà” ha vinto il Premio Fiesole. Ma in questo 2021 ha superato, forse, tutte le aspettative. Dal momento che è entrata in finale al Premio Strega e anche al Campiello. Riconosciuti da tutti come i più importanti traguardi a cui uno scrittore possa ambire.

La serata finale dello Strega, si sa, è finita con il trionfo di Emanuele Trevi con “Due vite”. Giulia Caminito ha collezionato 78 voti, arrivando quarta. Ma qualcuno sussurra già che sabato 4 Ottobre, all’Arsenale di Venezia, sarà tutta un’altra storia. E che la scrittrice romana potrebbe conquistare con il suo romanzo “L’acqua del lago non è mai dolce” (Bompiani) la giuria dei 300 lettori. Portandosi a casa il Premio Campiello numero 59. Dove, peraltro, dovrà confrontarsi con il votatissimo, dalla Giuria dei Letterati, Andrea Bajani con “Il libro delle case” (Feltrinelli). E poi con Paolo Malaguti autore de “Se l’acqua ride” (Einaudi), Paolo Nori con “Sanguina ancora” (Mondadori) e Carmen Pellegrino con “La felicità degli altri” (La nave di Teseo).

Giulia Caminito, giustamente, cerca di restare ancorata alla realtà: “Sono contenta, ma vigile – dice -. Il libro sta facendo un percorso felice, ma appunto non è indicativo di una carriera definita, né di un futuro già deciso né di un approdo. È il punto in cui sono ora e da qui continuerò a lavorare e a scrivere per migliorarmi”.

Ci sono due donne, al centro de “L’acqua del lago non è mai dolce”. Una madre e una figlia: Antonia e Gaia. Alla prima, la vita non ha mai regalato niente. Tutto quello che ha se l’è dovuto conquistare con grande fatica, senza mai arrendersi. Lottando come una tigre per non farsi sopraffare dall’indifferenza di una società che non aiuta affatto chi non nasce con un ruolo già definito, solido. Antonia combatte per avere una casa, si occupa di un marito rimasto disabile a causa di un incidente sul lavoro. Soprattutto, vuole che Gaia impari a contare soltanto su se stessa. A non chinare mai la testa. Per questo esige da lei un impegno spasmodico negli studi. E non esita a renderle la vita impossibile, con ripetute sfuriate, onde evitare che distrazioni secondarie la possano allontanare dai suoi obiettivi.

“È cattiva la gente che non ha provato il dolore”, si intitola uno dei capitoli del romanzo. Dove Giulia Caminito racconta una storia di donne costrette a farsi largo a spallate nella vita, pur di rivendicare la propria identità. E il diritto di stare al mondo in maniera dignitosa. Gli anni Duemila si specchiano in questa vicenda con tutta la propria fragilità e inquietudine. Con le illusioni ideologiche che porteranno Antonia ad allontanare di casa il figlio più grande, Mariano, convinto che per cambiare la realtà serva un opposizione dura e pura. Con le piccole e grandi meschinità che, spesso, segnano anche i rapporti di amicizia, d’amore. Con l’affascinante e inquieta presenza del lago di Bracciano, che accompagna il divenire della storia in silenzioso e mutevole afflato simbolico.

Alla banale realtà del suo essere diversa dagli altri, a lungo senza un telefono cellulare, con una vecchia tivù in casa recuperata quasi per caso, vestita sempre con abiti improbabili e fuori moda, Gaia reagisce con la forza dell’ostinazione. Prendendo a pugni chi le fa del male senza farsi troppi scrupoli. Sfidando la vita con incosciente determinazione, come quando sfreccia a fari spenti in sella la motorino dell’amico Mariano. Una sorta di necessario contraltare alla granitica gestione delle cose messa in atto, giorno dopo giorno, dalla madre Antonia.

C’è un tema forte alla base dei suoi libri, fin dal debutto con “La grande A”: la ricerca dell’identità. Perché la interessa così tanto?

“Sinceramente non ho mai pensato a questo tema in maniera consapevole, credo sia più una sottotraccia che rappresenta un mio bisogno e credo che i percorsi attraverso i quali i personaggi raggiungono consapevolezza positiva o negativa rispetto alla propria identità siano alla base di molta scrittura. Spesso parliamo di vite umane e la vita umana è identità e come questa identità si forma, di disfa, si interroga, si proclama, viene riconosciuta o viene messa al bando”.

“L’acqua del lago non è mai dolce” racconta un tempo che è quasi presente. Non è vero, allora, che molti scrittori italiani preferiscono schivare i problemi dell’oggi?

“Molti romanzi che vengono pubblicati in Italia sono ambientati nel presente o quanto meno nell’epoca contemporanea. Mi vengono in mente i romanzi di autori e autrici quasi miei coetanei come ‘Febbre’ di Jonathan
Bazzi, ‘Gli affamati’ di Mattia Insolia, ‘I tuoni’ di Tommaso Giagni, ‘La botanica delle bugie’ di Elisa Casseri, ‘Il grande me’ di Anna G. Dato, o anche ‘Sembrava bellezza’ di Teresa Ciabatti, ‘Dopo la pioggia’ di Chiara Mezzalama, ‘Sempre soli con qualcuno’ di Annalisa Desimone, solo per citare alcuni usciti negli ultimi anni”.

Le piace raccontare storie di donne a cui la realtà non regala mai molto. Perché?

“Il secondo romanzo è dedicato a due personaggi maschili, quindi non credo sia una questione legata alle donne e a ciò che loro non viene regalato. Mi piace parlare di contesti complessi, di realtà dure, di affondi sociali, di situazioni al limite e di famiglie che devono sfuggire alla povertà o agli eventi storici e tragici che le circondano. In generale penso che una costante sia la presenza di personaggi maschili e femminili non borghesi in tutti e tre i romanzi, perché trovo al di fuori della società del benessere o al limite con essa storie che attraggono di più il mio interesse e la mia voglia di scrittura”.

Madre e figlia: due mondi femminili così lontani, nel libro. Ma necessari l’uno all’altro?

“Sicuramente necessari. La madre e la figlia di ‘L’acqua del lago non è mai dolce’ sono diverse, incapaci al dialogo, scontrose, piene di spigoli, ma non si abbandonano mai e come inizia il romanzo così finisce, col ritorno al materno a cui molte donne sono portate perché è necessario per riconoscersi, per essere quella donne oppure un’altra donna a partire da quella”.

Non fa sconti alla società che entra nella storia del suo romanzo. Per trovare la sua strada, la protagonista deve lavorare duro e picchiare duro.

“Gaia non lavorerà mai se non alla fine del romanzo. Anzi deve studiare duro sperando con quello studio di conquistare un posto di lavoro migliore di quello della madre, per staccarsi da lei ed essere meglio di lei. Queste mire d’ascesa la portano a orientarsi con sudore e angoscia verso i banchi di scuola mentre fuori dalla scuola si dimena e picchia, appunto, per non farsi sottomettere dai suoi coetanei. La storia di Gaia è una storia difficile, certo, ma la nostra società purtroppo ci racconta tutti i giorni storie ben più dure, ben più tragiche. Sono sotto ai nostri occhi sempre”.

Ha scelto di raccontare l’adolescenza senza mai concedersi ammiccamenti al lettore. Perché una scelta
così diversa rispetto a tanti libri che mettono in scena i ragazzi?

“Ho scritto come mi sentivo di scrivere e trovo che in molti romanzi che ho già citato prima la gioventù non sia trattata in maniera retorica, ma anzi con grande cura verso la verità, il linguaggio, la schiettezza”.

Le figure maschili del romanzo sono sempre un po’ sbiadite o defilate. Forse gli uomini stanno perdendo
quel ruolo nella famiglia e nel mondo che si erano arrogati?

“Questo libro ha due protagoniste donne entrambe ingombranti a loro modo e piene di difetti. Per me figure come quella di Mariano sono secondarie ma non sbiadite e per nulla prive di ruolo o di valore. Il libro precedente è un libro sulla formazione politica di un giovane uomo, cerco infatti di variare da libro a libro la prospettiva di cui parlo. Non voglio raccontare un mondo privo di uomini o in cui gli uomini sono marginali. Anche se è chiaro che il ruolo degli uomini e delle donne è cambiato molto negli anni, a me piace pensare in maniera più fluida e interscambiabile. Per questo Antonia e Gaia sono donne ma assumono comportamenti per tradizione considerati maschili, perché credo che sia una sfida e una necessità del presente il superamento di certe categorie. Per questo Nicola, in “Un giorno verrà”, ha comportamenti che potrebbero dirsi più femminili, eppure è semplicemente Nicola e io racconto la sua storia”.

È laureata in Filosofia politica. Quando ha capito che la scrittura sarebbe diventata la strada maestra da seguire?

“Ancora continuo a non esserne sicura, in realtà. La scrittura è qualcosa che amo, a cui mi dedico, che coltivo anche solo per me stessa. Nella sua dimensione pubblica può portare molte soddisfazioni, come molte pene. I libri sono sempre delle incognite e i risultati della nostra scrittura possono passare da zero a cento e poi tornare a zero nel giro di due libri. Ho iniziato a scrivere proprio mentre studiavo all’Università, era il mio spazio libero, il mio sfogo, oltre lo studio accademico. A volte rimpiango quel periodo acerbo e pieno di sogni, anche se il tempo trascorso non è tanto da poter indurre nostalgia”.

Sente più responsabilità quando sottopone un manoscritto a un editore, visto che lavora come editor?

“Sono una junior editor che lavora per l!editore Giulio Perrone e in passato ha collaborato come esterna ad alcuni testi per Bompiani e per Giunti. In generale non si lavora mai come editor per l’editore che ti pubblica, renderebbe tutto molto complicato”.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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