• 29/07/2021

Paolo Malaguti: “Quando la lingua (perduta) detta una storia”

Paolo Malaguti: “Quando la lingua (perduta) detta una storia”

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Una lingua può generare storie. Soprattutto se fa rivivere parole di un idioma dimenticato. Se ridà significato a termini che stanno al confine tra la parlata dialettale e quella tecnica, di un lavoro diventato ormai desueto. Paolo Malaguti, prima di scrivere il suo romanzo nuovo “Se l’acqua ride”, ha lasciato che fosse proprio la parlata dei vecchi barcari, che sui burchi dal fondo piatto trasportavano merci seguendo la corrente dei fiumi, a suggerirgli una vicenda sospesa tra la nostalgia di un microcosmo destinato all’estinzione e la suggestione del futuro.

È nato da lì, dalla scoperta di un mondo di cui rimane ormai soltanto la memoria, che ha preso forma “Se l’acqua ride” (Einaudi, pagg. 189, euro 18,50), il romanzo di Paolo Malaguti che ha conquistato un posto nella cinquina del 59.o Premio Campiello. Nella serata finale all’Arsenale di Venezia, prevista per sabato 4 Settembre, lo scrittore nato a Monselice contenderà la vittoria agli altri quattro finalisti: Andrea Bajani con “Il libro delle case” (Feltrinelli), Giulia Caminito con “L’acqua del fiume non è mai dolce” (Bompiani), Paolo Nori con “Sanguina ancora” (Mondadori) e Carmen Pellegrino con “La felicità degli altri” (La nave di Teseo).

Paolo Malaguti ha esplorato in molti suoi libri il territorio e le culture del Veneto. Da “Grappa dopo la vittoria” al “Sillabario veneto” e il “Nuovo sillabario veneto”. Nel romanzo “Se l’acqua ride” ha voluto dare voce a un mondo cher stava scomparendo: quello dei barcari, dei proprietari dei burchi che solcavano il reticolo di fiume e canali tra Cremona e Trieste, tra Ferrara e Treviso, trasportando merci di tutti i tipi. Il microcosmo di nonno Caronte, che prova ad appassionare il nipote Ganbeto a quei viaggi lunghi e pieni di insidie, a quei rituali così privi di retorica e densi di fatica. Ma, attorno al ragazzo, ci sono sirene dal canto assai più potente di quella che può mettere in scena la vecchia chiatta chiamata Teresina. Sono la voce delle ragazze che promettono brividi di passione, un caleidoscopio di tentazioni umane e lavorative, nuovi aggeggi elettronici e mezzi di comunicazione di gran lunga più comodi.

Questo lento, ma inesorabile, passaggio dal passato al futuro prende forma in “Se l’acqua ride” senza che Paolo Malaguti si lasci mai trasportare dalla nostalgia per un piccolo mondo antico destinato a scomparire. Anzi, lo scrittore de “La reliquia di Costantinopoli”, “Prima dell’alba”, “L’ultimo Carnevale” racconta la storia di Ganbeto e di nonno Caronte, ambientata negli anni ’60 del ‘900, come fosse uno specchio perfetto in cui riflettere lo scorrere del tempo con leggerezza e fantasia.

“Ho sempre creduto che la lingua porti racconti – dice Paolo Malaguti -. L’ho verificato sia come lettore che da amante della scrittura. Nel mio romanzo ci sono due filoni linguistici, che mi hanno portato ad avvicinarmi alla storia anche dal punto di vista emotivo. Da un lato c’è il dialetto della mia famiglia, una memoria linguistica che mi porto dentro. ‘Se l’acqua ride’ è ambientato, infatti, in una parte del Veneto dove vivevano i miei nonni materni. Dall’altro, c’è il gergo dei barcari che ho dovuto studiato sui pochi testi che lo rievocano. Lì ho scoperto che il suono molto bello di certe parole mi obbligava a costruirci attorno un episodio, per poterlo usare. Diventava, insomma, motore creativo”.

Ad orientarsi in questo viaggio l’hanno aiutata alcuni testi?

“Sì, quelli che cito alla fine del romanzo. Mi hanno aiutato soprattutto i glossari dei termini che usavano i barcari. E devo dire che alcune di quelle parole mi affascinavano al tal punto da spingermi a utilizzarle nel mio testo. Ma come dovevo fare? È lì che la lingua si è connessa con la storia. Perché per poter usare alcuni di quei termini dovevo inventarci attorno un episodio che lo giustificasse. Una bella sfida, insomma”.

Il glossario alla fine di “Se l’acqua ride” tiene viva una lingua ormai perduta?

“In Veneto c’è ancora chi si illude di parlare il dialetto con una certa sicurezza. In realtà, tutti tendiamo a venetizzare l’italiano. E, così, continuiamo a perdere le parole della comunicazione quotidiana. Se poi andiamo a esplorare i termini che si usavano per certi mestieri che non esistono più, come quello dei barcari, allora scopriamo che sono proprio scomparsi”.

Il protagonista Ganbeto è una sorta di collegamento tra un passato ormai svanito e il nostro tempo?

“Non ho mai avuto dubbi sul fatto di ambientare il romanzo negli anni Sessanta. E, al tempo stesso, ero convinto che il mio protagonista dovesse essere un adolescente, perché altrimenti avrei raccontato una storia troppo cupa. Il ragazzo, al contrario, si sta appena affacciando al mondo. Sogna e progetta il suo futuro. Vive nel mondo del nonno Caronte, che come tutti i barcari è destinato a sparire, pur senza lasciarsi piegare dal cinismo di chi vede andarsene il proprio mondo. Lui, anche per gli anni che ha, guarda sempre avanti”.

Questa è anche un po’ la sua idea di letteratura?

“Sì, credo sia giusto raccontare i mondi che sono scomparsi. e dare ai loro protagonisti quella giusta amarezza che hanno provato nello scoprirsi, via via, inutili. Ma mi piace sempre aprire anche una finestra sul nuovo, su quello che sarà”.

Caronte traghetta il nipote Ganbeto alla scoperta della vita. Come il Caron dimonio dantesco traghetta le anime?

“All’inizio, non pensavo consciamente di fare un omaggio a Dante. Piuttosto, studiando la storia della civiltà fluviale nella Bassa Padovana ho trovato quel nome in un documento. Anzi, in realtà, era il soprannome di uno dei principali padroni di burchi. Mi è sembrato giusto prenderlo a prestito, proprio perché suonava fortemente simbolico nel passaggio del testimone tra la sua generazione e quella del nipote”.

Dallo studio dei documenti al viaggio della fantasia: come è andata?

“Anche in altri romanzi storici ho seguito un mio metodo. Sia che parlassi della Grande Guerra o della reliquia di Costantinopoli. In quei casi, la produzione saggistica era sterminata. Questa volta, invece, gli studi erano abbastanza scarsi. Ma io, proprio per non lasciarmi sommergere dalle fonti, parte sempre concedendomi un’infarinatura non troppo approfondita su quello che voglio raccontare. Così lascio che la mia storia prenda già forma. Poi, quando le prime dieci cartelle sono scritte, di solito devo compulsare le fonti, quando mi serve”.

Comanda, comunque, sempre la sua storia?

“Sì, questo è l’aspetto positivo. Di negativo c’è, però, che a volte mi impantano in qualche dubbio. E lì devo fermarmi per forza per chiedere chiarezza ai testi che su quelle vicende ne sanno più di me”.

I suoi primi libri sono usciti per un piccolo editore: Santi Quaranta. Lo considera una fortuna?

“Senza dubbio, anche alla luce del mio carattere, piuttosto timido. Partire con un editore locale permette di fare un po’ di sana gavetta. In più, evita di cadere nell’illusione narcisistica, così normale per tanti, di essere già grandi scrittori al primo o al secondo romanzo. Ho iniziato a parlare dei miei libri nelle piccole biblioteche di paese, o nelle sedi di qualche circolo culturale dove eri contento se ti ascoltavano dieci persone. Adesso che mi trovo in finale al Premio Campiello, faccio molta meno fatica a gestire quest’emozione”.

A ogni cambio di editore ha conquistato la giuria di qualche premio?

“In effetti è vero. Con Neri Pozza sono entrato nella selezione del Premio Strega grazie al romanzo ‘La reliquia di Costantinopoli’. Adesso è successo di nuovo con Einaudi per il Campiello. L’aspetto più bello è di essere cresciuto molto, in questi anni, anche grazie al lavoro fatto insieme agli editor di case editrici importanti come quelle già citate, ma anche Marsilio e Solferino”.

Quando si è innamorato della letteratura?

“L’amore per la lettura e la scrittura mi segue dagli anni del liceo. Infatti, finita la scuola, mi sono iscritto a Lettere. Poi, forse il mio modo di vedere la scrittura è cambiato completamente quando, dopo la laurea, mi sono trasferito dalla città in cui sono cresciuto, cioè Padova, in un paese vicino a Bassano del Grappa. Ho cambiato contesto, amici, mi sono messo a lavorare. E lì ho provato la voglia di scrivere racconti sul territorio che mi stava ospitando. Forse, però, non li avrei mai pubblicati se non mi avesse incoraggiato molto un amico e collega”.

Lei non è uno scrittore monolitico. Spazia dal romanzo storico alla distopia veneziana de “L’ultimo Carnevale”.

“Credo sia giusto sperimentare generi nuovi. E mi spaventa un po’ l’idea di diventare uno scrittore che si lascia conquistare dalla serialità. Qualcuno, ad esempio, dice che l’ispettore Ottaviano Malossi di ‘Prima dell’alba’ è un buon personaggio e potrebbe diventare il protagonista di una serie di libri incentrati su di lui. Però, fino a quando sento dentro di me la voglia di lasciarmi portare da altre tentazioni narrative, di seguire traiettorie diverse da quelle già battute, penso sia giusto continuare così. Sedermi al computer e provare a scrivere storie sempre nuove mi diverte molto”.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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