• 07/04/2022

Vitaliano Trevisan, l’implacabile bellezza di “Works”

Vitaliano Trevisan, l’implacabile bellezza di “Works”

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Un Premio Strega lo avrebbe meritato più di tanti altri. Lui, Vitaliano Trevisan, sarebbe andato a ritirarlo con la faccia piallata e di rappresentanza dell’altro se stesso. Quel Vitaliano Trèvisan, con l’accento spostato sulla e, che sapeva scendere a patti con teatranti, critici e editori indossando il “cappello dell’ipocrisia”. L’alieno che viveva dentro di lui, che si opponeva al suo carattere solitario e scontroso e gli sussurrava che non poteva sottrarsi sempre ai riti obbligatori della società. Che avrebbe potuto stare appartato, nel suo angolo di Veneto, pur senza negarsi frequenti apparizioni in pubblico, in tivù, nei consessi letterari che contano. Perché il mondo è pieno di artisti ribelli, di asceti sfuggenti, di contestatori irriducibili, che fanno cadere ogni loro parola, ogni gesto, come fossero forieri di altrettante verità rivelate.

Ma Vitaliano Trevisàn, con l’accento sulla a, non era proprio capace di smettere di camminare in direzione ostinata e contraria. Come raccontava nel suo libro “Tristissimi giardini” (Laterza, 2010), liberare di tanto in tanto l’altro da sé, il Vitaliano Trèvisan, gli costava sempre più fatica: “Un semplice spostamento d’accento basta a fare di me un’altra persona”. E poi, per uno come lui che credeva ciecamente nel potere della scrittura, era giusto che venissero gli altri a cercarlo. Insomma, che si accorgessero i critici, gli studiosi di letteratura, quelli che invocano l’avvento di sempre nuovi testi teatrali, chi ama i libri senza far parte di questa o di quella consorteria, che un romanzo come “Works” era di gran lunga il testo più forte, originale, urticante, pirotecnico, pubblicato in Italia, in Europa, non soltanto nel 2016. Ma in tutto il terzo millennio.

Purtroppo non è andata così. Sì, certo, “Works” ha incassato qualche ottima recensione. Hanno scritto che quello era davvero il libro più importante di Vitaliano Trevisan, pur ricordando che tutto il suo percorso di scrittore era contrappuntato da testi di alto valore. Tanto che il suo debutto romanzesco con “I quindicimila passi” (Einaudi, 2002) aveva incassato subito il Premio Lo Straniero e il Campiello Francia 2008, terza edizione del Campiello Europa.

Parole a parte, l’ammirazione per Vitaliano Trevisan non ha poi prodotto risultati significativi. Niente Strega, niente Campiello o Viareggio, nemmeno un premio minimo è venuto a salutare l’apparizione sul mercato editoriale di un capolavoro come “Works”. Poi, il 7 gennaio di quest’anno, la terribile notizia: lo scrittore aveva deciso di mettere fine alla sua vita. E quel gesto, a ben guardare, non ha sorpreso nessuno. Visto che l’autore de “Un mondo meraviglioso”, “Il ponte”, nato a Sandrigo nel 1960 e morto nella sua casa di Crespadoro, aveva dedicato all’idea del suicidio pagine di una lucidità impressionante.

Basterebbe ricordare che, nella parte iniziale dei “Quindicimila passi”, Vitaliano Trevisan scriveva: “Il pensiero del suicidio lo devo sempre lasciare un passo indietro. Sempre almeno un passo dietro di me, pensavo, altrimenti sono finito. Mi sono salvato dall’idea del suicidio e in definitiva del suicidio vero e proprio, solo grazie a questo continuo camminare, solo spostandomi in continuazione seguendo le rotte più disparate, non diritto, non in cerchi concentrici, non a spirale, solo un continuo vagare, un continuo camminare, un continuo arrancare, nel continuo tentativo, devo dire coronato dal successo, di tenere sempre dietro il suicidio e il pensiero del suicidio, sempre e continuamente il suicidio almeno un passo indietro”.

Vitaliano Trevisan era uno scrittore dotato di una lucidità feroce, di un’ironia che non concedeva sorrisetti compiaciuti ma stimolava feroci ghignate. Era un implacabile osservatore della realtà, descritta con maniacale e beffarda precisione. Sapeva fare del racconto minuzioso del vivere uno strumento utilissimo per evitare di lasciarsi raggiungere dalla quotidianità. Non accettava l’idea di far diventare perfettamente condivisibile ciò che strazia la mente, il cuore, l’anima e le viscere.

Sei anni fa, “Works” è passato come una luminosa, sottovalutata, transitoria meteora, nel panorama culturale italiano. Adesso, però, Einaudi, sull’onda dell’emozione per la morte di Vitaliano Trevisan,  ha voluto riproporre il romanzo (pagg. 696, euro 22) aggiungendo come appendice alle quasi 700 pagine un testo inedito intitolato “Dove tutto ebbe inizio”. Di gran lunga il più spietato, limpido, condivisibile affondo sulla realtà del nostro tempo, e di quello che abbiamo attraversato, che un intellettuale italiano abbia mai affidato alla scrittura letteraria.

“Works” è un libro che non finisce mai di sorprendere, di emozionare, di stupire, anche dopo ripetute letture. È una miniera inesauribile di storie che raccontano con implacabile e dettagliata precisione la vita di un giovane uomo. Un tipo di provincia che si prepara a scrivere accettando un confronto ravvicinato con il mondo del lavoro.

Il protagonista del romanzo, alter ego di carta dello stesso Vitaliano Trevisan, passa così dal mondo dei cantieri a quello delle mille attività produttive disseminate attorno a lui, dallo sporcarsi le mani con la malta al creare asettici disegni per mobili da arredamento. Guardando dietro le sue mille maschere, mette a fuoco una regione come il Veneto in cui il lavoro è religione. In cui il far soldi equivale al recitare le preghiere in chiesa la domenica. In cui dilaga la diffusione della droga, che sia erba, cocaina, eroina, basta che lo sballo non interferisca con il dovere di essere puntuali ogni mattina, con l’ordine di non dare scandalo in pubblico, con la necessità di non far trapelare all’esterno le rogne di famiglia.

Pochissimi sono i romanzi italiani che hanno la forza dirompente di “Works”. Il coraggio di squadernare davanti agli occhi del lettore le ipocrisie, le falsità, i fasulli mascheramenti a cui la società non sa sottrarsi. E Vitaliano Trevisan non arretra mai, non si fa cogliere da tentennamenti nel raccontare il coinvolgimento attivo del suo alter ego nel consumo e nello spaccio di droga. Non tentenna quando deve esternare la sua convinzione che prostituirsi è un lavoro come gli altri, se viene svolto per libera scelta e non sotto minaccia, dietro coercizione (e non è forse la scrittura, si chiede, “far commercio di sé in altra forma”?). Non si dimentica di dire forte e chiaro che gli incidenti sul lavoro, le frequenti morti nei cantieri, non sono episodi isolati, dettati dalla sfortuna. Ma conseguenza diretta e inevitabile del modo stesso in cui le persone sono costrette a stare sospese nel vuoto, sulle impalcature, oppure a sollevare pesi immani.

Il lavoro, raccontato da “Works”, assume i connotati della condanna riservata all’uomo nel suo percorso terreno. Una sorta di pena da scontare subito, qui e ora, visto che della vita ultraterrena non c’è certezza. Ma trovarsi un’occupazione, incassare una paga e non perdere tempo, diventa anche un obbligo fisico e metafisico. Per non trovarsi ai margini della comunità umana, per non cedere alla tentazione di trasformarsi in un’entità invisibile agli occhi dei “normali”.

Attraversando il tempo e la spazio di una vita scandita dal lavoro e dai sogni, dagli amori finiti male e dalle amicizie sfociate in tradimenti, dai progetti di scrittura, dai successi interlocutori e dalle cocenti delusioni, Vitaliano Trevisan non si lascia mai tentare dall’imboccare la scorciatoia dell’opportunismo. Non sceglie nemmeno in una sola riga di imboccare la strada del quieto vivere. In “Works” impallina intellettuali e scrittori con nomi e cognomi. E non nasconde, quando parla di sé, che la sua scrittura è sempre stata dettata da quel senso di melanconia, straniamento, solitudine, che si è portato dentro per tutta la vita. “Disperazione, è per questo che scrivo, vale ora e valeva allora, mentre tornando verso casa ero caduto di nuovo nel buco nero di questi tristi pensieri, che sempre accompagnano il fallimento del momento, buco nero che ovviamente, col passare del tempo diventava sempre più profondo e sempre più nero”.

Il Veneto di “Works” non è di certo quelle delle commedie goldoniane. Nelle parole di Vitaliano Trevisan assume la fisionomia di uno scosceso baratro umano. Dove le ragioni dell’industrializzazione, della produzione, del profitto e del guadagno, hanno devastato la politica, desertificato i rapporti sociali, modificato il territorio fino a umiliarlo e stravolgerlo, isolato le persone spingendole verso la depressione.

È forse questo l’aspetto più inquietante e bello del libro. Non c’è una sola riga di “Works” in cui Vitaliano Trevisan si lasci andare alla tentazione di consolare i suoi lettori. Per quasi 700 pagine, mai lo scrittore concede sconti a quel mondo che ha guardato da vicino. Fino a non poterne più.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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