• 21/04/2022

Veronica Galletta, com’è difficile essere donna in un cantiere

Veronica Galletta, com’è difficile essere donna in un cantiere

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Non sempre letteratura e mondo del lavoro hanno seguito orbite lontanissime. Ci sono stati anni, nel ‘900, in cui gli scrittori hanno dato forma a quello che veniva chiamato il romanzo industriale. Costruendo attorno alla realtà delle fabbriche, della galassia degli operai e degli impiegati, un vero e proprio filone narrativo. Pronto ad analizzare la produzione e mettere a fuoco la capacità di adattamento o di rifiuto di quei ritmi produttivi. Seguendo queste coordinate, alcuni autori hanno raggiunto risultati alti. Basterebbe citare Primo Levi con “La chiave a stella”, Italo Calvino con “La speculazione edilizia”, Paolo Volponi con “Memoriale”, molto apprezzato da Pier Paolo Pasolini, Goffredo Parise con “Il padrone”, Luciano Bianciardi con “La vita agra”. Ma anche “Tempi stretti” o “Donnarumma all’assalto” di Ottiero Ottieri, coinvolto da Adriano Olivetti nella sua straordinaria esperienza di dialogo tra mondo del lavoro, industria, cultura e letteratura. Senza dimenticare i versi di Vittorio Sereni con “La visita in fabbrica”.

Nel terzo millennio non sono mancati i tentativi di aggiornare questo dialogo tra narrativa e mondo del lavoro. All’inizio degli anni Duemila “La dismissione” di Ermanno Rea ha raccontato con grande forza un momento drammatico di passaggio nel mondo industriale italiano. Mario Desiati con “Ternitti” ha puntato gli occhi sulla realtà dei migranti e la tossica promessa di ricchezza legata alla produzione dell’eternit; Silvia Avallone con “Acciaio” ha saputo dare corpo al confronto tra l’adolescenza di due ragazze e la realtà operaia di Piombino. Ma il romanzo che più ha saputo indagare con dirompente originalità e sguardo implacabile le varie facce del mondo del lavoro è “Works” di Vitaliano Trevisan. Gigantesca finzione autobiografica sul divenire di un giovane uomo attraverso le multiformi esperienze nel mondo della produttività.

Non si può non salutare con grande interesse e gioia, adesso, l’opera seconda di Veronica Galletta. Sì, perché la scrittrice siciliana che vive a Livorno, dopo aver vinto il Premio Campiello Opera Prima nel 2020 con “Le isole di Norman” (Italo Svevo Edizioni), proietta la protagonista del nuovo romanzo “Nina sull’argine” (minimum fax, pagg 222, euro 16) in un ambiente lavorativo che conosce molto bene. Visto che lei, da ingegnere, ha lavorato quasi vent’anni per un ente pubblico.

Caterina, una giovane professionista che non ama sentirsi chiamare “signora” ma preferisce qualificarsi con il ruolo di “ingegnere”, riceve il primo incarico importante nel momento in cui il suo ufficio viene travolto da uno scandalo giudiziario. Dovrà occuparsi dei lavori per la costruzione dell’argine di Spina. Coordinerà, lei donna, un contestato cantiere nell’alta Pianura Padana, a cui è affidato il compito di risolvere il devastante problema delle piene del fiume. Tra geometri, gruisti, operai marocchini che si chiamano tutti Ahmed, assessori presenzialisti fissati con la pausa pranzo. E improvvise, stranianti nebbie.

A tormentare Caterina non solo solo i problemi legati alle dinamiche del cantiere. Alle continue verifiche da effettuare dei capitolati di spesa, per esigere che vengano rispettate le regole nella costruzione dell’argine. Alla gestione degli operai, di chi ha vinto l’appalto, di quelli che poi lavorano in subappalto. La sua stessa vita sta finendo in frantumi. Da quando Pietro se n’è andato, così, all’improvviso: “Me ne vado un paio di giorni da un amico per riflettere”, ha bisbigliato. Ma, da allora, il tempo è scivolato via inesorabile, senza che lui si facesse sentire. E la casa ha assunto connotati sempre più estranei, sfuggenti, come fosse una stazione di passaggio che ha perso la propria identità.

Caterina sa che Pietro frequenta un’altra. Li ha visti insieme. Così, adesso, si ritrova spesso a immaginarlo vagare nei luoghi del cantiere. O, meglio, le sembra di scorgere la sua ombra soprattutto nei momenti in cui si trova in difficoltà. Come quando deve tenere testa al geometra Bernini o a Musso, una sorta di strampalato e maniacale leader del Comitato Fiume Libero. O quando deve gestire le strampalate richieste della vedova di uno degli operai, che vorrebbe “far aprire una porta nell’argine”. L’unico che riesce a darle un po’ di conforto, soprattutto quando la donna ingegnere ha bisogno di parlare liberamente, di trovare un consiglio disinteressato, è un vecchio operaio che compare soltanto se in giro per il cantiere non c’è più nessuno. Una presenza evanescente, forse un fantasma, o uno spirito guida che non ha chiuso ancora i conti con il passato. E semina dietro a sé brandelli di ricordo.

Costruito con assoluta sapienza tecnica e padronanza di un mestiere governato da regole precise, mai a rischio di scivolare dentro il baratro di uno sterile sfoggio di termini e dinamiche lavorative sconosciute alla grande maggioranza dei lettori, “Nina sull’argine” è un romanzo che ruota attorno alla ricerca della protagonista di “un posto dove stare”. Di una situazione in cui riconoscere la propria casa. Perché a Caterina, siciliana in trasferta nel Nord Italia senza l’assillo di una nostalgia troppo ingombrante per la terra d’origine, la vita non risparmia tutti i fastidi che le può proporre. Dal trovarsi in un mondo fatto esclusivamente di maschi come il cantiere, dove dimostrare il suo valore professionale, ma anche il suo spessore umano, al confrontarsi con un partner immaturo, evanescente, come Pietro. Sempre pronto a tentennare davanti a ogni decisione.

Veronica Galletta, con “Nina sull’argine”, dimostra ai critici e ai lettori che il suo romanzo di debutto “Le isole di Norman” non era una meteora. Perché lei, quando scrive, non lavora soltanto alla cura della lingua, alla solidità della struttura narrativa, ma riesce sempre a dare corpo a una serie di personaggi tridimensionali. Pieni di pregi e di difetti, irascibili eppure empatici, scostanti ma presenti quando è il momento di esserlo. Figure che entrano sul palcoscenico della pagina come se  arrivassero direttamente dagli scenari della realtà di tutti i giorni. Ben sapendo che vivere richiede il coraggio di sbagliare. Dal momento che “tutto insieme non si può tenere”. E “andare avanti significa sempre un po’ tradire. Qualcuno, qualcosa, se stessi”.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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