• 28/07/2022

Elena Stancanelli: “Il Tuffatore nello specchio dell’Italia”

Elena Stancanelli: “Il Tuffatore nello specchio dell’Italia”

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La letteratura, spesso, assomiglia a un grande specchio. Perché sa catturare, e riflettere in una prospettiva del tutto credibile, eppure perfettamente romanzesca, storie, vite, epoche, personaggi, persone. Restituisce, insomma, alla realtà un racconto di certi fatti che non hanno mai trovato la giusta prospettiva, la corretta messa a fuoco, per essere compresi fino in fondo. Liberi, finalmente, dalla zavorra del giudizio, dal peso immane della condanna, dalla illusoria scorciatoia di un’assoluzione emessa troppo in fretta.

E proprio a un grande specchio letterario assomiglia “Il tuffatore” (La nave di Teseo, pagg. 228, euro 18) di Elena Stancanelli, il romanzo della scrittrice fiorentina che è entrato nella cinquina dei finalisti del Premio Campiello (oltre che nella terna del Viareggio-Rèpaci per la narrativa). E che sabato 3 settembre, al Teatro La Fenice di Venezia, dovrà sfidare per la vittoria Fabio Bacà con “Nova” (Adelphi), Antonio Pascale con “La foglia di fico” (Einaudi), Daniela Ranieri con “Stradario aggiornato di tutti i miei baci” (Ponte alle Grazie), Bernardo Zannoni con “I miei stupidi intenti” (Sellerio).

La storia del “Tuffatore”, Elena Stancanelli se la portava dietro da tempo. Lo confessa lei stessa proprio nelle prime righe del libro: “Come quella per Fabrizio De André, la mia passione per Gardini risale a quando ero una ragazzina”. Il Gardini in questione è proprio lui, Raul. L’uomo che, partendo dalla guida del gruppo Ferruzzi, era diventato prima il maggiore produttore di zucchero, Eridania, per poi dare la scalata a Montedison con il sogno di creare un grande polo chimico italiano. Il ragazzo che, dal molo di Ravenna, con i suoi tuffi in mare aveva conquistato Idina Ferruzzi, figlia di Serafino. E che da figlio di un ricco imprenditore agricolo sarebbe diventato uno degli industriali più potenti, temerari, temuti e visionari, nel panorama italiano di fine ‘900.

Ma seguendo i passi perduti di Raul Gardini, che morirà suicida il 23 luglio del 1993, inseguito dalle inchieste del team di magistrati di Mani Pulite, Elena Stancanelli non ha voluto tracciare ne “Il tuffatore” solo un ritratto dell’uomo che non ha mai smesso di sognare in grande, sfiorando perfino la vittoria nella Coppa America di vela con i suoi Moro di Venezia. No, la scrittrice di “Benzina” (Premio Giuseppe Berto), “La femmina nuda” (finalista allo Strega), “Vanne alla spiaggia un assassino”, ha composto, accanto alla figura del Contadino, un immenso arazzo con le storie di una generazione scomparsa molto in fretta. Uomini del secolo scorso sconfitti dalla Storia, vittime del sistema di corruzione e di pericolosi intrecci con la politica che loro stessi avevano finanziato.

Da scrittrice sempre aperta alle sperimentazioni, agli intrecci di generi, alla polifonia dei linguaggi, Elena Stancanelli ha fatto del suo “Tuffatore” un lungo viaggio dentro i misteri dell’economia e della politica senza mai perdere il gusto per il racconto. Ma, al contrario, trascinando il lettore dentro i meccanismi che regolano il mondo della finanza come se seguisse il filo di una storia d’avventura. E poi, mentre scorrono le tappe della vita di Raul Gardini, il libro tratteggia con grande forza la provincia romagnola, il fascino felliniano di Ravenna, le inquiete atmosfere delle stanze del potere, da Mediobanca fino ai ministeri romani. Lasciando che, in sottofondo, risuonino le parole di tante canzoni di Fabrizio De André. Legato a quello che veniva chiamato il Contadino non solo dal rapporto di lavoro con il padre del cantautore, Giuseppe, e dall’amicizia profonda con il fratello Mario, ma anche da una stima reciproca. Tra il più anarchico dei musicisti italiani e il più visionario e spregiudicato degli industriali.

“Non mi sono accontentata, mentre scrivevo il libro, – spiega Elena Stancanelli – del fatto che il passato funzionasse come uno specchio per riflettere il presente. Volevo che anche all’interno dello ieri che racconto ci fosse questo meccanismo di rispecchiamenti. Perché, in fondo, ‘Il tuffatore’ funziona come una mappa, che può servire a capire come si è concluso il ‘900 in Italia. E in questa mappa ho voluto inserire tanti punti di riferimento: alcuni sono letterari, quelli che riguardano di più il mio mondo, altri sono economici, politici, giudiziari. Ci sono io stessa, i personaggi che ho amato, le città, i pensieri. Tutto questo serve a spiegare che cosa siamo stati. E come le vicende di quell’ultimo scorcio di secolo si riverberano, poi, su quello che siamo adesso”.

Ma perché proprio questa storia?

“I motivi sono diversi. Il primo, quello più semplice, è geografico. Il fratello di mio padre viveva a Ravenna proprio in quel periodo. Quindi, oltre a conoscere bene la città, ho seguito sempre la storia di Raul Gardini con interesse, potrei dire con passione. Poi, è passato un bel po’ di tempo. E quando mi sono messa a studiare davvero le sue vicende mi sono accorta che avrei potuto usare lui, la sua ascesa e la sua caduta, come una sorta di cartina al tornasole per capire e far capire quello che Pier Paolo Pasolini definirebbe il cambiamento antropologico del nostro Paese tra la fine del ‘900 e l’inizio degli anni Duemila. Ovvero, dove sono finite le persone come Raul Gardini o come si sono trasformate? Che fine hanno fatto quegli uomini, quel tipo maschile?”.

È stato liquidato in fretta come un lestofante?

“Dori Ghezzi ha detto una cosa molto bella. Riferendosi a suo marito Fabrizio de André, che conosceva bene Gardini e gli era amico, ricordava come lui lo considerasse più un artista che un industriale. Questa cosa mi ha fatto molto pensare. Perché, in effetti, Gardini aveva la visionarietà dell’artista, la capacità di immaginare, di elaborare idee che prevedessero come sarebbe potuto cambiare il mondo. Ma dell’artista aveva anche quel terribile impaccio di confrontarsi con la realtà. Era un uomo dotata di una grandissima immaginazione nel proprio mestiere. Tutte le persone con cui ho parlato, anche chi non gli era particolarmente amico, hanno confermato questa sua capacità di vedere oltre la ristrettezza del tempo che stava vivendo”.

De André e Gardini: due molti lontanissimi, solo in apparenza?

“Questo è un aspetto molto interessante. Che è servito da criterio, da punto di riferimento del libro. Certo, in apparenza De André e Gardini sembrano diversissimi. Io sono sempre stata molto interessata a queste figure. E scrivendo il libro ho trovato un punto forte in comune tra loro: il lato umano. Non bisogna, poi, scordare che il fratello di Fabrizio, Mauro, è stato uno dei più fidati collaboratori di Gardini, oltre che suo amico vero. È morto troppo presto, a 53 anni durante una vacanza a Bogotà, per un aneurisma cerebrale”.

Molte delle sue idee erano autentiche profezie per un migliore futuro dell’Italia?

“Nel 1985 tutti ballavamo allegramente sul Titanic riempiendo l’Italia di sacchi di spazzatura. Chi mai avrebbe immaginato che, quarant’anni dopo, quello dello smaltimento dei rifiuti sarebbe diventato uno dei temi più urgenti e difficili da risolvere? Gardini aveva già pensato a come affrontare la questione, per trasformare un costo in un guadagno. Cioè, voleva risolverla in maniera imprenditoriale. Come, del resto, aveva già pensato a materie alternative per riuscire a rinunciare alla plastica. Ma anche ad altre soluzioni per cercare di limitare sempre di più l’inquinamento. E, poi, aveva l’ossessione di creare il grande polo chimico italiano. Che, poi, è il progetto contro il quale si è andato a schiantare. Ma che solo adesso, con sempre nuove guerre e difficoltà a renderci fragili, possiamo capire quanto sarebbe stato importante”.

Certo, il, libro non nasconde le ombre, gli errori, i dubbi sul personaggio…

“Io non sono un prete, non impartisco assoluzioni o condanne. Non mi occupo di colpe e peccati. Quando scrivo mi piace raccontare storie. Ed è impossibile non ammettere che la vita di Raul Gardini è perfetta per un libro, perché lui era un grandissimo personaggio romanzesco. Io quello ho fatto. L’ho constestualizzato, calandolo nel suo tempo, raccontando la famiglia, gli amici, i politici, chi lo amava e non lo amava. Adesso, poi, abbiamo la fortuna di poter guardare quel periodo con occhi più limpidi. E dire che sono stati anni convulsi, in cui si sono messe in campo troppe idee, bruciandole in fretta. Spesso le persone si sono comportate in maniera irrazionale. Anche per una certa voglia, giustissima, di fare giustizia. Di interrompere l’abitudine a corrompere, a risolvere i problemi a suon di milioni. Poi, solo il lettore potrà farsi una sua idea. E dire, se credo, chi aveva ragione e chi sbagliava”.

Tante letture, tanto studio, e poi: come nasce un romanzo così meticcio, stratificato?

“Dopo aver letto tanto, mi sono detta che tutta quella mole di informazioni aveva bisogno di un metodo. E ho cominciato a scrivere usando un po’ la tecnica del montaggio cinematografico. Così, ho lavorato davvero per tanto tempo. Il mio obiettivo era quello di restituire una storia complessa eppure trasparente, leggibile, appassionante. Un di intrecci complessissimi che, però, si rivelano appassionanti. Jean Genet diceva che quando guardi un funambolo eseguire uno dei suoi numeri non ti chiedi ‘perché?’, ma ‘come fa?’. La letteratura, per me, è questo”.

Si può raccontare anche uno squallido Limonov e scrivere un grande libro come ha fatto Emmanuel Carrère?

“Carrère racconta anche il perché esisteva uno come Limonov. E anch’io lo faccio con Gardini. Ma non è quello il punto. Lo scrittore francese riesce a tenerti incollato alla pagina fino alla fine, anche se poi il personaggio del suo libro è uno che sparava contro la gente di Sarajevo che andava a fare la spesa>”.

Nel suo  libro non manca il ricordo di un titolo feroce di “Cuore”, la rivista satirica diretta da Michele Serra: “La barca tornò sola. Raul Gardini eterno secondo: Cagliari lo beffa all’ultima boa”.

“La satira, anche in quel caso, ha fatto il suo lavoro. È stata feroce, violenta. Non si è posta limiti nemmeno davanti alla morte. Però pensiamo anche quanta libertà di pensiero in più c’era in quegli anni. Oggi, se fai una cosa del genere ti crocifiggono”.

Non è stata la satira ad armare, poi, la mano degli haters dei social network?

“Non credo. La satira faceva soltanto il proprio mestiere. Penso, invece, che abbiamo iniziato a non capire più niente quando il confine tra realtà e immaginazione si è fatto sempre più invisibile. È in quel momento che abbiamo smesso di renderci conto che la satira, la letteratura, la poesia, sono un altro territorio di libera fantasia rispetto all’insulto greve e violento dei messaggi spediti via internet”.

Da “Benzina”, il suo libro d’esordio, a “Il tuffatore” non ha mai smesso di innamorarti delle storie che sanguinano?

“Mi piacciono le storie di pirati. Sono cresciuta credendo fino in fondo che la letteratura sia un coltello affilato. Non regala consolazioni, non asseconda le debolezze, non si fa paladina dei frignoni. Preferisce i personaggi disallineati a quelli che mettono in mostra un’identità granitica”.

È già stata in finale allo Strega. Questo Campiello lo vive con meno emozione?

“No, un gara è una gara. Si può tentare di essere razionali, di pensare al fatto che comunque entrare in finale in un premio importante giova al tuo libro perché venderai di più. Però, sotto sotto, ognuno di noi vorrebbe vincere. In ogni caso, sono felice di essere nella cinquina di un premio come il Campiello, creato dagli industriali del Veneto, con un romanzo come questo che racconta l’Italia dell’industria, del denaro, del potere”.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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