• 08/08/2022

Romana Petri, essere mamma può diventare una storia mostruosa

Romana Petri, essere mamma può diventare una storia mostruosa

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“Mamma, ma la canzone mia più bella sei tu. Sei tu la vita, e per la vita non ti lascio mai più”. Erano gli anni ’40, e con quella voce sublime che si ritrovava il tenore Beniamino Gigli non aveva fatto fatica a conquistare l’Italia. L’inno d’amore filiale, composto per un film di scarso successo da Cesare Andrea Bixio e Bixio Cherubini, era dedicato alla figura sacra per antonomasia dell’immaginario collettivo. La mamma. Colei a cui tutti devono la vita, e che non si può smettere di amare per la vita intera. Da allora, altri cantanti hanno provato lo stesso giochetto: da Edoardo Bennato con “Viva la mamma” a Luca Barbarossa con “Portami a ballare”. Ma qualcosa, nel frattempo, si è incrinato. Soprattutto perché molte donne hanno trovato il coraggio di dire a voce alta di non credere alla maternità. Di non sentirsi madri perché così prevede un copione scritto da altri. Qualcuna, sulla scia della Medea di Euripide, ha scoperto dentro di sé un istinto omicida nei confronti dei propri stessi figli. Pulsioni blasfeme, eretiche, estreme, difficili da comprendere, da accettare. Da tirare fuori dalle tenebre del delirio per portarle alla luce di una possibile spiegazione.

E allora, se la giurisprudenza fa fatica a inquadrare il temporaneo blackout mentale di certe donne, se la psichiatria non riesce ad andare al di là da polverosi schemi di interpretazione, se la società si ritira inorridita dall’idea che una madre possa ammazzare il proprio figlio, tocca alla letteratura provare a raccontare quello che è difficile solo immaginare. “Io li ucciderò, io che li ho messi al mondo”, diceva Medea nella tragedia di Euripide avviandosi “sulla strada del dolore” e cercando “di dimenticare “che sono figli tuoi e che li ami tanto”. In quel caso, la morte era vista come un gesto necessario di vendetta della principessa della Colchide, figlia del Sole, nei confronti dell’empio Giasone. L’uomo che non aveva più un “omphalos”, un centro di gravità dal valore sacro, e che dopo aver tradito il padre, ucciso il fratello, era pronto a sposare Glauce, figlia del re Creonte, ripudiando proprio Medea, che lo aveva aiutato a rubare il vello d’oro al proprio popolo.

Adesso, ad addentrarsi nei labirinti della “Mostruosa maternità” è una delle scrittrici italiane più brave. Quella Romana Petri che ha incantato la critica e i lettori con la trilogia di “Ovunque io sia”, “Pranzi di famiglia” (Premio The Bridge) e “La rappresentazione”, che ha conquistato le giurie dei premio Comisso e Anna Maria Ortese-Rapallo con “Figlio del lupo”. E che ha dedicato a suo padre Mario Petri, basso-baritono e attore, lo splendido “Le serenate del Ciclone”, trionfatore del Super Mondello e del Mondello Giovani nel 2017. Questa nuova raccolta di racconti, pubblicata da Giulio Perrone Editore (pagg. 197, euro 16), trascina il lettore nella vertigine di dodici brevi storie implacabili e umanissime.

La “Mostruosa maternità” di Romana Petri parte da “Le solite cose”. Storia di una madre di oggi che vive con il marito e i bambini in una sorta di piccolo paradiso terrestre, disperso tra le montagne. Un eremo che lei soffre come una sorta di ingiusta prigionia. Uno spazio infinito di rituali  familiari, di monotonia e noia, che la incatena ogni giorno ai medesimi gesti. A una ripetitività pronta a ingigantire le sue inquietudini. E che la porterà ad ammazzare, in modo feroce, il figlio più piccolo. Spingendola subito a convincersi che non è stata lei, ma qualcuno che invidiava fortemente la sua vita apparentemente perfetta.

Senza mai nominarla, Romana Petri prende il caso di Annamaria Franzoni (la madre assassina di Cogne che si è sempre proclamata innocente) e lo riscrive facendone un caso paradigmatico. Ma concedendo a quella che i media hanno crocifisso come l’assassina il beneficio del dubbio. In un dialogo dalla forza perturbante nel racconto che chiude “Mostruosa maternità”: “Colpevole o innocente”. Dove due donne, comodamente sedute sulla poltrona del salone di parrucchiere, si scontrano proprio discutendo sul caso della madre assassina. Una pervicacemente aggrappata alla sua idea che quella donna sia un mostro, l’altra pronta a fare spazio dentro di sé al dubbio. Perché “a volte la verità viene fuori molto più tardi, quando apparentemente serve a poco”. E lasciare aperta la porta a tutte le ipotesi, anche quelle meno rassicuranti, può essere un ottimo esercizio per non trasformare il mondo in una colonia penale.

Di maternità mostruose, nello scorrere del tempo, Romana Petri ne trova molte. Come quella raccontata in “La regina Octuria”. Una storia ambientata nel 1237 a Godarat, dove l’uccisione del figlio da parte della regina assume i connotati dell’avverarsi di una terribile profezia. O come quella de “Il banchiere Klaus Kleist”, che si svolge nella Zurigo del 1897. Dove sarà Viktoria, la figlia, a scegliere di togliersi dal mondo dopo aver subito la violenza carnale del nuovo marito di sua madre, impazzita dalla rabbia come la Regina di Biancaneve per aver visto crescere la ragazzina e diventare più desiderabile di lei. In “Tagarà”, ambientata nel Brasile del 1936, sarà la radice velenosissima di una pianta a mettere fine ai giorni di una donna dalla bellezza leggendaria, e del figlio non ancora nato. Per non sciupare mai, con il parto, l’allattamento, la cura del bambino, quel suo fascino così fragile.

Nella Napoli di “Tronco d’albero”, che si svolge nel 1973, una madre confessa al commissario di polizia di avere ucciso il figlio per gelosia. Visto che il ragazzino sembrava avere occhi e attenzione soltanto per il padre, non certo per lei. Mentre in “Ogre”, nella Oneglia ligure del 2009, Nadežda rinnega la propria famiglia per vivere il suo sogno d’amore con un ragazzo italiano. Ma scoprirà presto quanto fugace sia il nascere e il trascolorare della passione. E quanto difficile sia per una donna giovane che vuole vivere la propria vita, cercandosi un nuovo compagno, dover accudire un bambino ancora piccolo, mentre l’altro pensa solo a divertirsi, a stare bene, a fare sesso. Proprio di recente, le pagine dei giornali si sono riempite dell’agghiacciante destino di una bimba lasciata morire di fame e sete perché la sua giovane mamma non voleva che fosse di intralcio nella relazione con un uomo conosciuto da poco.

In dodici storie, Romana Petri ripercorre le malinconie e lo smarrimento, gli sconforti e il buio profondo che si trovano ad attraversare la vita di molte donne quando non si sentono realizzate dalla maternità. Quando vedono impallidire l’interesse del proprio compagno davanti al loro corpo che ha perso il suo fascino. Come accade alla protagonista di “Un balcone sulla Prenestina”, ambientato a Roma nel 2005: corto viaggio nella vertigine di una ragazza troppo giovane per sentirsi ormai un oggetto da buttare. E che non si rassegna al fatto di doversene restare chiusa in casa, da sola con il figlio, grassa e infelice, mentre il marito si concede ampi spazi di divertimento nel weekend.

Nelle storie che racconta, con uno stile secco, preciso, linguisticamente ricco, Romana Petri non emette giudizi. “Mostruosa maternità” non imbastisce processi, non condanna e non assolve, racconta il destino di donne che si trovano a fare i conti con la solitudine, l’incomprensione, la difficoltà di trovare qualcuno disposto ad ascoltarle e a capirle. Apre la porta di case dove l’amore sfuma rapidamente in lontananza, indifferenza, imbarazzo. Guarda con occhi pieni di comprensione, di sgomento, di terrore, il trovarsi inchiodate al non voluto ruolo di madre di troppe giovani del tutto inconsapevoli e impreparate.

Benedetto dalle chiese, santificato dalle società, glorificato dalla letteratura e della poesia, proprio quel ruolo, quell’essere all’improvviso mamme, indispensabili e necessarie sempre e comunque, diventa un peso terribile da portare su spalle troppo fragili. E al di là dei facili stereotipi, può diventare la più pesante delle maledizioni. Madre fonte di vita che diventa, quasi sempre per disperazione, madre fonte di morte.

E, allora, un libro come “Mostruosa maternità” va letto non solo per il suo valore letterario, che è indubbio.  Per la forza di storie che inducono il lettore ad attraversarlo con passo rapido, a farsi coinvolgere pagina dopo pagina. Questo nuovo libro di Romana Petri è anche un ragionamento sul  malvezzo di inchiodare le persone, soprattutto le donne, a pregiudizi e a giudizi di condanna. È un invito a non fare spallucce davanti ai problemi degli altri. A non fingere di non capire e di non vedere. Perché, quasi sempre, all’ombra di una madre assassina ci sta un mondo che se ne frega di lei e dei suoi problemi. Una società che non ha fatto niente per aiutarla, per prevenire la furia assassina.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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