• 13/11/2017

“Una questione privata”, com’è difficile maneggiare un capolavoro

“Una questione privata”, com’è difficile maneggiare un capolavoro

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Non c’è dubbio che Beppe Fenoglio volesse raccontare un frammento della Resistenza. Ma “Una questione privata”, il romanzo incompiuto ritrovato tra le sue carte e pubblicato poco dopo la morte dello scrittore, avvenuta il 17 febbraio del 1963, portava dentro di sé un desiderio ben più grande: ovvero quello di trasformare la guerra partigiana, l’orrore di un conflitto fratricida che aveva spaccato l’Italia in due, in un romanzo capace di stare al fianco dei grandi capolavori della letteratura. Dove il tormento d’amore spingeva il giovane partigiano Milton a smarrire la ragione, come accadeva all’Orlando “furioso” di Ludovico Ariosto. Dove il presente, sanguinoso e durissimo, della caccia all’uomo nella nebbia delle Langhe assumeva i toni dell’epopea cavalleresca.

Ancora oggi,  “Una questione privata” porta incise sulla propria pelle le stigmate del capolavoro assoluto. Un romanzo, costruito con “geometrica tensione” come annotava Italo Calvino, che si fa leggere a passo di corsa come fosse un disperato western, un thriller senza assassino e senza indagini, in cui l’amore sa ferire più delle pallottole. Ed è, allora, con grande inquietudine che ci si appresta a guardare la versione filmica del libro di Beppe Fenoglio firmata dai fratelli Paolo e Vittorio Taviani. Due registi, considerati autentici totem nell’ambito del cinema (non solo italiano: basterebbe ricordare che nel 1977 erano già i trionfatori indiscussi del Festival di Cannes con il loro “Padre padrone”, trasposizione filmica degna della Palma d’oro tratta dal libro di Gavino Ledda), che hanno sempre dimostrato di saper maneggiare la letteratura con grande cura. Da “San Michele aveva un gallo” del 1972, tratto dal racconto di Lev Tolstoj “Il divino e l’umano”, fino al pirandelliano “Kaos” o alle “Affinità elettive” da Goethe. Senza dimenticare “La masseria delle allodole”, il quasi Premio Campiello di Antonia Arslan (perso per un’inezia di voti), dedicato al genocidio degli armeni in Turchia.

Infatti, i fratelli Taviani, portando sul grande schermo “Una questione privata”, scelgono la strada del rispetto. Decidono di “tradire” soltanto dove necessario il romanzo. Affidano a Luca Marinelli la missione di dare corpo, volto al sensibile Milton. Puintando sull’attore che è riuscito a mettere d’accordo tutti, critici e cinefili, nei panni dello psicopatico Zingaro in quel gioiellino che è “Lo chiamavano Jeeg Robot” di Gabriele Mainetti. E bisogna riconoscere che la scelta è azzeccata, anche perché il peso quasi intero della narrazione filmica, dei sorrisi imbarazzati, dei momenti di tristezza e di rabbia, dell’ansia e della disperazione che contrappuntano la storia, ricadono su di lui. Ed è sempre lui-Milton che,  in una giornata prigioniera della nebbia, ritorna quasi per caso in quella casa di vacanza nelle Langhe dove era nato il suo amore disperato e bellissimo per Fulvia (che ha il bel faccino di Valentina Bellè, tre film girati nel 2017). E scopre quasi per caso, conversando con la governante, una possibile, mai sospettata liaison della ragazza con Giorgio. L’amico prediletto, quello che adesso combatte insieme a lui una complicata, infinita guerra di liberazione dai fascisti e dai nazisti.

E allora Milton perde la ragione. Tormentato dal sospetto, irritato dai silenzi della bella Fulvia, prende a girovagare da una brigata partigiana all’altra, da un rifugio di fortuna a un terreno di scontro, alla ricerca dell’amico. Per sapere se la governante ha detto la verità. Per togliersi un macigno dal cuore, dalla mente. Ma Giorgio (Lorenzo Richelmy) è stato catturato dagli “scarafaggi”. Bisogna trovare uno di loro da scambiare, per salvargli la vita. Per salvare se stesso dalla disperazione, dall’angoscia. Niente e nessuno possono fermare Milton, nemmeno le pallottole dei nemici, che lo inseguono fino alla scena finale. Dove i fratelli Taviani scelgono di correggere quell’enigmatica, irrisolta chiusa, che non lascia proprio spiragli aperti alla speranza.

Girato con mano ferma e grande rispetto per il romanzo, pennellato dalla bella fotografia di Simone Zampagni, mai leccata eppure efficacissima, segnato dalle note magiche di “Over the rainbow” (che Judy Garland cantava nel “Mago di Oz”), “Una questione privata” dei fratelli Taviani deraglia soltanto quando i due registi vogliono aggiungere al romanzo di Fenoglio, sempre in un adrenalinico, controllatissimo equilibrio, alcune inutili concessioni retoriche. Come il fugace incontro strappalacrime di Milton con i genitori, o la scena della bambina rimasta la sola a vivere accanto al cadavere della madre, degli altri familiari massacrati dei fascisti. Grottesca, poi, appare la figura del torturatore di partigiani, che affronta la fucilazione continuando imperterrito a suonare la sua immaginaria batteria jazz. Perché serve soltanto a ribadire, in maniera ridondante, da che parte stavano i fanatici sanguinari in quella guerra.

Forse un finale più sfumato, senza i saltelli di Milton che tenta di esplodere insieme a un ponte minato cercando di  non finire nelle mani dei fascisti, sarebbe stato più efficace. Per sottolineare la solitudine, il silenzio di quel momento così drammatico. E la pace che si impadronisce del ragazzo partigiano quando capisce che in fondo, tra l’Amore e la Morte, non c’è poi una distanza così abissale.

<Alessandro Mezzena Lona

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