• 08/12/2017

Angeli (o demoni) in musica nella testa di Robert Schumann

Angeli (o demoni) in musica nella testa di Robert Schumann

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Cominciò tutto con un sogno. Quando, giovanissimo, Robert Schumann si svegliò un giorno dicendo che aveva visto la sua morte. Molto tempo dopo, il 27 febbraio del 1854, lo ripescarono alcuni uomini dalle acque del Reno, a Düsseldorf, dopo che lui aveva tentato di annegare, con le pantofole ai piedi, nella corrente gelida del fiume. Era già sposato da tempo, il compositore, con una donna di grande talento: quella Clara Wieck che, oltre a mettere al mondo otto figli, si sarebbe affermata come una delle migliori pianiste e concertiste dell’800. Ma i soccorritori preferirono tenerla all’oscuro di tutto, dal momento che lei era incinta di cinque mesi. Avrebbe rivisto suo marito soltanto due anni più tardi, nelle non certo allegre stanze del manicomio di Endenich. Dove quello che viene considerato uno dei massimi compositori di musica romantica era stato ricoverato quattro giorni dopo il tentato suicidio. E dal quale non sarebbe mai più uscito.

Affascinato dai tavolini che ballano e dallo spiritismo, innamorato di Clara al punto di considerarla l’altra metà di se stesso, un’unica entità di quel “doppelganger” che si divertivano ad animare in un quaderno riempito da entrambi di pensieri, anche molto intimi, Robert Schumann si era messo presto a parlare di uno strano disturbo dell’udito. Raccontava, infatti, di sentire le voci degli angeli che cercavano di spiegargli l’incommensurabilità di Dio. Provocandogli “meravigliose sofferenze”. Ma c’era di più: tra quelle strane presenze, di tanto in tanto faceva capolino anche qualche grande musicista, ormai defunto. Come Jakob Felix Mendelssohn Bartholdy, che gli aveva suggerito un tema in mi bemolle maggiore.

Molto in fretta, la mente di Schumann sarebbe andata in frantumi. Anche se, isolato a Endenich e sorvegliato con maniacale attenzione dal dottor Hasenclever, che non avrebbe mai smesso di annotare in maniera pedante e scrupolosa le minime variazioni d’umore dell’illustre paziente, il compositore non smetterà mai di pensare intensamente alla sua musica, alla moglie Clara, ai figli e agli amici prediletti: il giovanissimo Johannes Brahms e l’ammirato violinista Joseph Joachim. Intessendo una corrispondenza non fittissima, ma piena di suggestioni e di apparente voglia di vivere, di continuare a fare musica, che adesso riempie un prezioso, affascinante libretto curato da uno dei migliori scrittori italiani del nostro tempo: quel Filippo Tuena che ha vinto il Bagutta Opera Prima con “Lo sguardo della paura”, aggiudicandosi quattordici anni più tardi il premio maggiore con “Le variazioni Reinach”. Continuando a proporre altri bellissimi libri come “Memoriali sul caso Schumann” e “Michelangelo. Gli ultimi anni”.

Le “Lettere da Endenich” di Robert Schumann, curate da Tuena che firma anche la lunga introduzione “Di Paesi e uomini stranieri”, fa parte della Piccola biblioteca di letteratura inutile, di cui il deus ex machina è Giovanni Nucci, pubblicata da ItaloSvevo con la traduzione di Anna Costalonga (pagg. 107, euro 13).

Dal diario di Clara, dai referti medici, dalle lettere firmate dagli amici, la mente di Schumann appare subito come uno specchio che si sta disintegrando sotto i nostri occhi. Anche se il musicista non smette mai di nascondersi dietro un tono apparentemente giocoso, pieno di entusiasmo e di voglia di vivere: “Che gioia, amata Clara, mi hai portato con la tua lettera e con il ritratto… Che tu scriva dei nostri parenti e dell’attitudine musicale di Julie mi ha reso felicissimo di cuore. E così anche per quello che scrivi di Brahms e Joachim e delle composizioni di entrambi”. Ma dietro quella ostentata serenità si nascondono le “molte notti insonni”, la sempre più scarsa voglia di nutrirsi, il trasformarsi delle sue parole in un terribile farfugliare. “Come se avesse la lingua ingombra”, annotata il medico. Che non poteva far finta di non accorgersi che le voci angeliche, capaci di suggerirgli quell’autentico, innovativo capolavoro che è “Gesänghe der Frühe”, un Canto dell’aurora che lascia viaggiare le mani sul pianoforte con incredibile libertà, si stavano trasformando in cavernosi richiami demoniaci.

Altre siderali musiche avrebbero preso forma da quei disturbi uditivi. Da quel canale segreto spalancato sul mistero. Le ultime, intitolate “Kinderszenen”. Tredici brani chiusi da “Der Dichter spricht”, che ancora oggi sanno stregare i pianisti più virtuosi e curiosi. Ma che a nessuno hanno voluto spiegare il proprio esoterico messaggio.

In fondo, anche la voglia di scrivere, di comunicare con parenti e amici, sarebbe stata un brevissimo fuoco di paglia, destinato a interrompersi dopo il maggio del 1855. La Morte era già in agguato: sarebbe passata a riscuotere quello che le è dovuto il 29 luglio del 1856. Lasciandosi alle spalle il mistero della discesa nelle tenebre della mente di un uomo dal talento musicale immenso. Da allora, nessuno ha mai saputo spiegare se sia stata una conseguenza della sifilide, forse contratta in giovane età, o il rincrudelirsi di un disturbo bipolare, di una devastante “malinconia”, come veniva definita allora, ad accendere la miccia della follia. Da scrittore, da sognatore, Filippo Tuena non può negarsi di immaginare che, in realtà, Schumann sia riuscito a liberarsi dalla gabbia del manicomio. A valicare i confini della propria mente. Magari imbarcandosi per il viaggio che aveva fantasticato a lungo sui due atlanti “che il signor Schubert di Amburgo mi deve aver spedito con molti altri libri come regalo”. Volumi per sempre svaniti nel nulla al momento della sua morte.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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