• 19/12/2017

Autobahn, c’è luce in fondo all’oscurità

Autobahn, c’è luce in fondo all’oscurità

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Dicevano di amare i Krafwerk e la musica elettronica. Tanto da scegliere un nome fortemente evocativo e assai impegnativo per la loro band: Autobahn. Proprio come l’album del quartetto germanico che, nel 1974, segnava il passaggio dalle sperimentazioni musicali di Ralf Hütter e Florian Schneider alla svolta techno-pop. Quella che, sposando alla formazione classica dei due genietti usciti dal Conservatorio di Düsseldorf un grande amore per l’electro-funk, per il synth-pop e anche per la ambient, li avrebbe portato a autentici, innovativi capolavori come “Computer love”, “Trans-Europe Express”, “The robots, “Pocket calculator”, “Musique non-stop”. Fino alla fantastica sinfonia futuribile di “Tour de France”.

Ma il primo disco degli Autobahn, il quintetto di Leeds messo sotto contratto nel 2015 dalla Tough Love Records, trasudava tutto meno che amore per la musica elettronica. “Dissemble”, infatti, partiva per un ruvidissimo viaggio fatto di sonorità post punk, di richiami alla miglior tradizione dark e gothic. Mettendo in vetrina una gran voglia di scaricare adrenalina dentro i dieci brani previsti dalla scaletta, che non lasciava alcun dubbio sulla volontà di staccarsi nettamente dalla danzante cantabilità dei teutonici Kraftwerk.

Su un fatto, comunque, si poteva scommettere subito: ovvero, che quel disco di debutto rappresentava un laboratorio di sonorità. Non certo un punto fermo. E che gli Autobahn, proseguendo il loro viaggio musicale, si sarebbero trovati giocoforza a deragliare nelle direzioni più diverse. Per inseguire sonorità che, già tra le tracce di “Dissemble”, seminavano qua e là senza portarle alla loro giusta maturazione. Infatti, il secondo disco sta lì a dimostrare quanto la band di Leeds sia cresciuta. “The moral crossing”, inciso ancora per Tough Love, è stato pensato, costruito e registrato nello studio che il gruppo ha voluto crearsi appositamente. E lì, in quello spazio tutto loro, i cinque musicisti si sono sentiti liberissimi di dare forma a dieci brani che riassumono la loro crescita. La voglia infinita di sperimentare, di ascoltare i ritmi che arrivano dal profondo. Di muoversi al confine tra l’indie rock, una new new wave piena di citazioni, l’oscurità dei suoni ereditati dal gothic e dal punk che non sono, però, mai sterili imitazioni.

Dieci brani, si diceva, per 44 minuti di musica magmatica, potente, urticante, oscura. Dove, in fondo al buio, si intravede una luce chiarissima. Gli Autobahn iniziano a costruire subito il loro gioiello nero da un “Prologue” che avanza sornione, pieno di suoni acidi di chitarra, foriero di un’esplosione sonora che aspetta soltanto di deflagrare. Invece, “Obituary” si avanza prima sorniona, poi sempre più veloce, fino a trasformarsi in una fuga in avanti sostenuta dalla voce del cantante Craig Johnson. Ma è in “Future” che la band regala la prima sorpresa, regalando un ritmo danzante che fa tornare alla memoria certi piccoli gioielli confezionanti negli anni Ottanta dagli Ultravox di Midge Ure (una su tutte? la sognante “Vienna”, con quell’accelerazione finale fatta di suoni sintetici), ma anche tanti splendidi pezzi “pop” dei New Order, dopo l’addio a Ian Curtis e dei favolosi, cortissimi, seminali anni dei Joy Division.

Niente passa mai invano. E, allora, la lezione del passato ritorna in quell’intro di batteria, con la voce che si impone buia e sensuale come quella di Andrew Eldritch dei Sisters of Mercy, che lancia “The moral crossing”. Come nel seducente, emozionale attacco di archi che modella “Torment”, autentico viaggio nella malinconica bellezza di quello che Johnson definisce “il suono del dolore, sempre molto accattivante”. Qualche concessione alle sfuriate sonore del primo album ritorna in “Execution/Rise”, mentre il finale promette robuste melodie con “Creation” e la circolare, magnetica seduzione di “Fallen”.

Dimenticata la primordiale infatuazione per i Kraftwerk, gli Autobahn si candidano a far dimenticare gruppi come The Mission, Interpol, Editors. Proprio perché non soffrono di complessi d’inferiorità nei confronti di nessuno.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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