• 18/04/2018

The silent man, l’uomo che accese la miccia del Watergate

The silent man, l’uomo che accese la miccia del Watergate

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Non era certo un santo, Mark Felt, e nemmeno un eroe. Ma era un uomo che per trent’anni aveva dedicato tutta la sua energia, intelligenza, dedizione, all’Fbi. Al Federal Bureau of Investigation. Insomma, al cuore stesso della struttura poliziesca più alta e potente d’America. Che non fosse un tipo perfetto lo si scoprì nel 1980, quando venne condannato per alcuni eccessi investigativi compiuti contro il gruppo radicale di sinistra Weathermen. Con la scusa della minaccia terroristica, lui e i suoi uomini erano andati giù piuttosto pesanti. Poi, ci aveva pensato il presidente Ronald Reagan a firmare di suo pugno il decreto di grazia per un funzionario così stimato e instancabile.

Allora, però, Mark Felt non aveva ancora confessato il pesantissimo segreto che si portava dietro dagli anni Settanta. E che avrebbe rivelato appena nel 2005, facendo pubblicare dal suo avvocato un testo sul sito di “Vanity Fair”. In cui dichiarava: “Sono io quello che chiamavano Gola Profonda”. Facendo cadere, una buona volta, il velo di mistero che aveva ammantato il misterioso informatore di Bob Woodward e Carl Bernstein, i due cronisti del “Washington Post” capaci di portare, con i loro articoli e le rivelazioni che contenevano, il presidente americano Richard Nixon a rassegnare le dimissioni. Dopo lo scandalo sullo spionaggio, autorizzato da lui stesso, nei confronti degli avversari politici del Partito Democratico durante la campagna elettorale.

Lo scandalo Watergate, definito così perché era proprio in quell’albergo che aveva sede il Comitato Nazionale Democratico, ha lasciato ferite profonde sull’America. Tanto da spingere più di uno scrittore, di un cineasta a non ritenere sufficiente che a raccontare il caso sul grande schermo fosse stato un pur ottimo film come “Tutti gli uomini del presidente”, diretto nel 1976 dal regista Alan J. Pakula, che poteva contare su due autentici divi hollywoodiani come Robert Redford e Dustin Hoffman. Tanto per dire, Steven Spielberg ha deciso di chiudere il suo splendido “The Post”, diretto l’anno scorso con due superstar come Meryl Streep e Tom Hanks a dare quel tocco di eccellenza attoriale in più, proprio con una scena che alludeva alla bufera capace di spazzare via Nixon.

Adesso, però, Peter Landesman ha pensato che fosse arrivato il momento di puntare i riflettori su Mark Felt in persona. Ovvero, sull’uomo che accese la miccia, con ostinata determinazione, del caso Watergate. E per dare volto e voce, oltre che una presenza fisica importante, visto che deve stare in scena praticamente dal primo all’ultimo fotogramma, a un personaggio così ingombrante ha scelto un attore-feticcio come Liam Neeson. Uno che, nella sua lunghissima filmografia, annovera film epocali come “Schindler’s List” ma anche autentici successi al botteghino come “Le cronache di Narnia”. Affiancandogli Diane Lane, che nel suo curriculum di attrice può contare parecchi film diretti da Francis Ford Coppola (“I ragazzi della 56.a strada”, “Rusty il selvaggio”, “Cotton Club”) ma anche “Walk on the moon – Complice la luna” di Tony Goldwyn.

Sceneggiatore, attore, scrittore, giornalista investigativo, produttore cinematografico, Peter Landesman arriva con “The silent man” alla sua terza prova da regista, dopo “Parkland” e “Zona d’ombra”. E dimostra fin dall’inizio di saper tenere ben strette in mano le briglie di un film così difficile da costruire. Perché gioca di sottrazione, sfronda, asciuga la storia e i dialoghi. Punta sulla presenza gelida e carismatica di Liam Neeson. Lascia che sia il suo furore di funzionario incorruttibile a travolgere la tracotante sete di potere di Nixon e dei suoi uomini. Gioca tutto, insomma, sullo sdegna di un uomo, capace di trascurare la famiglia, di trovarsi testimone ignavo del rapporto burrascoso tra sua moglie e la figlia, davanti ai pesanti tentativi della presidenza degli States di mettere il bavaglio a un’istituzione come l’Fbi, da sempre libera di svolgere il proprio ruolo di investigazione senza doversi censurare. Senza fermarsi davanti a niente e a nessuno.

E allora, il film ruota tutto attorno al teorema di Mark Felt. Un uomo capace di convincersi che solo il suo fornire informazioni riservatissime sul caso Watergate ai giornalisti avrebbe potuto, in qualche modo, salvare l’America dal pericolosissimo intreccio di schifezze politiche e interessi personali. Un funzionario, Felt, che, mentre infuriava la tempesta su Nixon, doveva vivere in perfetta solitudine la responsabilità di una delazione così pesante e rischiosa. Remando anche contro il  nuovo direttore dell’Fbi Ed Miller  (interpretato da Tony Goldwyn), messo in quella strategica posizione proprio da chi voleva che lo scandalo politico venisse insabbiato. Restando in perfetto silenzio quando altri colleghi venivano accusati al posto suo.

Certo, “The silent man” non è un film che fa spettacolo. Non concede niente alla platea che vede nel cinema uno strumento artistico al servizio del divertimento. Peter Landesman tira dritto per la sua strada, rispolverando il gusto di costruire un film di denuncia politica granitico e riuscitissimo. Una prova d’autore intrisa di coraggio e passione civile.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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