• 11/05/2018

Guillermo Arriaga: “I miei libri? È come se qualcuno me li dettasse”

Guillermo Arriaga: “I miei libri? È come se qualcuno me li dettasse”

Guillermo Arriaga: “I miei libri? È come se qualcuno me li dettasse” 1024 576 alemezlo
Si può scrivere un libro lungo oltre 700 pagine senza mai perdere il ritmo. Senza mai annoiare. Incatenando una storia all’altra, costruendo un castello di destini incrociati dove la vita e la morte sembrano legate da una sintonia indissolubile. Sì, si può: Guillermo Arriaga ci è riuscito. E sarebbe facile, adesso, tagliare corto dicendo che lui è prima di tutto un bravissimo sceneggiatore. Che si devono alla sua fantasia le strutture narrative di film bellissimi come “Amores perros”, “21 grammi” e “Babel” di González Inárritu. Perché basta immergersi nel fiume grande del suo nuovo romanzo, per capire che il l’autore nato aCittà del Messico sa muoversi con grande abilità nei territori del cinema, ma anche in quelli della letteratura.

Qualcosa dovrebbero averci insegnato i suoi libri precedenti. Soprattutto “Pancho Villa e lo Squadrone Ghigliottina” e “Un dolce odore di morte”. Ma “Il selvaggio”, tradotto da Bruno Arpaia per Bompiani (pagg. 747, euro 22), va ben oltre. Perché qui Guillermo Arriaga trova nella storia di Juan Guillermo, il ragazzo che vive bruciando i giorni all’ombra della morte, una via per costruire una grande epopea. Per inventare un romanzo di formazione originalissimo, dove non c’è un confine netto tra il Bene e il Male. Dove il protagonista dovrà aggrapparsi a un grande amore per non farsi trascinare via da un destino che sembra volergli sottrarre, con metodica ferocia, le persone a lui più care.

Juan Guillermo cresce all’ombra non di un amico invisibile, ma di un fratello che non c’è. Dal momento che è morto ancora prima di venire al mondo. E quando la vita sembra disposta a svelargli i suoi segreti, le meraviglie di un corpo di donna, il calore delle amicizie vere, il divertimento sfrenato dei giochi d’infanzia che non conoscono stanchezza e noia, suo fratello Carlos viene ammazzato in un’imboscata ideata da qualche poliziotto corrotto e da un gruppo di cristiani fondamentalisti. Un manipolo di fanatici moralizzatori che, all’ombra della Chiesa, delirano su un mondo capace di cancellare tutto quello che dà scandalo. Anche se, a ben guardare, la loro vita per prima è  fuori rotta.

In un accavallarsi di storie e di destini, con il Messico corrotto e violento degli anni ’60 e ’70 e fare da palcoscenico, Arriaga costruisce un romanzo originalissimo. Dove al racconto si sovrappongono ricordi letterari, storie sapienziali, suggestioni prese dal folclore di popoli dimenticati. Il tutto contrappuntato dalla sorte di un lupo costretto a vivere alla catena, in un mondo lontanissimo dal suo, che riacquisterà la libertà grazie a uno dei sogni possibili di Juan Guillermo.

“Potrà sembrare strano, ma questo libro è basato su fatti reali che non sono mai successi – dice Guillermo Arriaga, che è tra gli ospiti del Salone del Libro di Torino 2018 -. Questi significa che mi sono ispirato a persone reali, a fatti, a esperienze, che hanno segnato la loro vita, ma poi ho lavorato di fantasia come fanno gli scrittori. Quindi potrei definire ‘Il selvaggio’ una finzione reale. Proprio per questo non lo considero un’opera autobiografia, ma un’esperienza personale”

Juan Guillermo è un ragazzo che corre verso la vita, anche se la morte lo segue come un’ombra?

“Questa è la verità: quando scrivo non sono cosciente di quello che andrà a formare le mie storie. È come se lavorassi sotto dettatura, come se ci fosse qualcuno nella mia testa che mi suggerisce l’andamento della storia. Per questo, io stesso scopro ciò che accade ai personaggi esattamente come lo fanno i lettori. E mi piace molto lavorare così: dal momento che non ho un piano definito, mi sorprendo ad assistere all’andamento delle cose da spettatore. E credo che tutto ciò regali una maggiore freschezza alla storia”.

Le sue storie nascono in una sorta di trance creativa?

“La prima stesura viene così: veloce, pura. Poi, certo, correggo, cambio, riscrivo, fino a quando non sono contento”.

I suoi personaggi non restano incatenati alle pagine. Sono vivi, vogliono vivere…

“Nel libro alcuni personaggi devono molto a certi miei amici. Loro hanno donato molta luce alla mia vita, e adesso la stessa energia positiva si è riversata sui personaggi del romanzo. Penso al Castoro Furioso, che esiste realmente, come tanti altri. Praticamente ho rubato la loro personalità per costruire figure di carta che avessero sangue nelle vene e sogni nella testa. Ovviamente, sono diversi dai modelli reali perché agiscono mossi dalla mia fantasia. Eppure, hanno le stesse qualità umane dei loro punti di riferimento. Potrei dire che il romanzo è un omaggio all’amicizia”.

Ma il Messico è così violento, corrotto?

“È un Paese sicuramente violento e corrotto, come racconto io. Ma, al tempo stesso, può contare sulla solidità morale di tante persone. Credo che l’esempio più bello di come sia la gente lo abbiamo visto durante il recente terremoto: migliaia di persone hanno aiutato chi era rimasto senza casa. Gli atti di sciacallaggio erano davvero minimi. Tutti hanno fatto il possibile per stare accanto ai più sfortunati, mettendo a rischio anche la propria vita”.

Il fondamentalismo non è solo islamico. Nel “Selvaggio” ce n’è un altro, violentissimo, di ispirazione cristiana?

“Non pensavo all’allarme Islam, che adesso terrorizza l’Occidente, mentre scrivevo il libro. Volevo raccontare alcune storie di quand’ero ragazzo, negli anni ’60 e ’70. Allora, c’era qualche gruppo di cristiani ultraconservatori vicini ad alcuni movimenti neonazisti. Uno si chiamava Muro, Movimento unificatore di orientamento rinnovatore, l’altro Junque, che sarebbe l’incudine. Li ho visti in azione e facevano paura. Adesso non sono più aggressivi come in quegli anni. Si sono fatti assorbire da qualche partito politico”.

Lei è un cacciatore. Però, nel libro, costruisce una storia di grande sensibilità animalista che ruota attorno a un lupo. Come concilia questa contraddizione?

“Non c’è contraddizione. Tutti i cacciatori amano la Natura. Non fanno altro che integrarsi con l’ambiente, con le leggi della vita e della morte. Perché ci sia l’una dev’esserci anche l’altra. Per costruire una città come Torino si sono abbattuti boschi, distrutte campagne, uccisi gli animali che vivevano lì. Cacciare non significa per forza ammazzare. Io uso solo arco e frecce e non devo per forza abbattere la preda che sto inseguendo. A volte, quando tendo la corda dell’arco molti animali scappano. Se un cervo si ferma a guardarmi, io non lo colpirò mai. E non userò mai il fucile”.

Letteratura e cinema: mondi diversi?

“No, per me è tutta letteratura. Chi scrive un romanzo o una pièce teatrale fa esattamente lo stesso percorso di uno sceneggiatore cinematografico. Non sono mondi diversi e nemmeno linguaggi creativi diversi”.

<Alessandro Mezzena Lona

 

[contact-form-7 404 "Not Found"]