• 31/08/2018

Megan Hunter, il mondo salvato da una mamma (con bambino)

Megan Hunter, il mondo salvato da una mamma (con bambino)

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Non c’è niente che assomigli alla fine più dell’inizio. E non c’è attimo che si avvicini di più al sorgere di una vita nuova che quello del tramonto di altre esistenze. Della Morte. È tutto lì, in quel misterioso testacoda, in quel tempo apparentemente fatto di istanti diversissimi, eppure straordinariamente simili. Perché sta nel principio e nella fine sta il senso di tutto. E forse solo lì, chi non si aggrappa a certezze, chi non cede alle lusinghe dei dogmi, chi continua a cercare con serena disperazione, può trovare prima o poi le risposte.

Risposte che, spesso, non si avvicinano nemmeno lontanamente alle grandi domande. Ma si limitano a fornire coordinate essenziali per il vivere eventi straordinari. Come accade nel romanzo di debutto di Megan Hunter “La fine da cui partiamo”. Un libro, tradotto da Alba Bariffi per Guanda (pagg. 125, euro 15), che qualcuno si è affrettato a catalogare alla voce letteratura distopica. Ma che, in realtà, si limita a muoversi in un tempo sospeso nel tempo. In un presente che potrebbe essere domani, ma anche, in modo più semplice, un oggi parallelo dove una giovane donna si trova a mettere al mondo suo figlio proprio mentre Londra viene travolta da una catastrofe ambientale. Un’onda di piena, una tempesta d’acqua, un’invasione liquida che costringe la popolazione a mettersi in salvo. Ad abbandonare le proprie case, a scappare.

“Notiziario delle tredici, 14 giugno. Tina Murphy in diretta. Inondazione senza precedenti. Londra. Inabitabile. Una lista di quartieri, come il bollettino ai naviganti, con i nomi all’improvviso perfetti e dolci come nomi di bambini. Il nostro”. Procede così, Megan Hunter, costruendo il suo romanzo per folgoranti informazioni, frasi brevi, gruppi di paragrafi secchi ed efficaci raggruppati in un andamento testuale che ricorda certi stringatissimi messaggi di Twitter. Oppure, i post più efficaci e magri di Facebook. Una scelta stilistica coraggiosa, originale, forse ispirata un po’ anche da quel trascurato esperimento narrativo, di grande efficacia, che è stato “Scatola nera” di Jennifer Egan.

Di certo un debutto autoriale, quello di Megan Hunter, che segnala la scrittrice di Manchester, con casa a Cambridge, laureata in Letteratura inglese all’Università del Sussex, come una delle voci contemporanee più interessanti e promettenti.

Davanti alla catastrofe, la protagonista de “La fine da cui partiamo”, il suo compagno R e il bimbo appena nato, non possono fare altro che scappare da una Londra sommersa. Seguire la massa di disperati in fuga da quella che, con divertito cinismo, è stata definita la Gulp Zone. L’area a rischio, dove l’acqua agisce ormai incontrastata. Ma presto, anche la strana famiglia verrà separata dagli eventi. E la mamma si ritroverà da sola con il suo cucciolo appena nato ad affrontare una vita di rischi, incognite, continui allarmi e sfiancante precarietà. Dal momento che nessuno sembra in grado di dire se il mondo, là fuori, riuscirà ad arginare la catastrofe ambientale. Se ci sarà un domani, se le persone che si sono perse riusciranno a riunirsi, a ritrovarsi.

L’ansia di una madre alle prese con i primi vagiti, il sonno disturbato, la fame che va e viene del suo bambino, diventano soltanto un tassello di una ben più gigantesca paura dell’imponderabile, dell’inconoscibile. La società sembra arrendersi di fronte ai fenomeni naturali. la struttura politica, amministrativa, si dissolve, svanisce, non è in grado di governare quello che un giorno potrebbe capitare per davvero: lo scatenarsi di una natura per troppo tempo umiliata, avvelenata, massacrata.

E allora la storia della mamma de “La fine da cui partiamo”, e del suo bambino, diventa un potente j’accuse nei confronti della società dei consumi. Che brucia allegramente l’oggi come se non ci fosse un domani. Che sperpera risorse, costruisce cattedrali sulla sabbia e poi le abbandona, inquina e uccide, devasta e demolisce tutto quello che le capita tra le mani. Ma, al tempo stresso, Megan Hunter scorge una fioca luce in fondo al tunnel della disperazione. Perché per difendere la nuova vita che è uscita dal suo grembo, la giovane donna è pronta a sfidare la follia del suo tempo. A combattere sognando che quel neonato diventi adolescente, poi giovane uomo, adulto.

L’amore diventa, così, la diga più efficace contro l’indifferenza. Un muro solidissimo su cui costruire una traballante speranza. Una voglia ribelle di non arrendersi che ha il cuore, il corpo, il cervello di donna.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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