• 23/09/2018

Pierre Lemaitre: “Il mio Conte di Montecristo ha un volto di donna”

Pierre Lemaitre: “Il mio Conte di Montecristo ha un volto di donna”

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Quei 22 editori non lo avrebbero mai immaginato. Che un giorno Pierre Lemaitre, l’aspirante scrittore a cui avevano rispedito al mittente con un secco “non ci piace” il suo manoscritto, avrebbe vinto il Prix Goncourt. Il riconoscimento che la Francia assegna ai suoi scrittori più ammirati e rappresentativa. Una sorta di consacrazione ufficiale da parte del mondo delle lettere, della cultura alta. Un inchinop, con il cappello in mano, che nel 2014 ha riconosciuto la bravura mostruosa dell’autore che, fino a quel giorno, era considerato solo un ottimo fabbricante di thriller. Di romanzi popolari.

“Ci rivediamo lassù”, ovviamente, non era un fuoco di paglia. Ma il punto di arrivo di uno scrittore come Pierre Lemaitre, che ha debuttato molto dopo i 50 anni e ha regalato ai suoi lettori non solo la serie noir del commissario Camille Verhoeven (“Irène”, “Alex”, Camille”, “Rosy & John”), ma anche autentici gioielli narrativi come “L’abito da sposo” e “Lavoro a mano armata”.

Nato a Parigi, insegnante di letteratura per molti anni, sceneggiatore prima che scrittore da Goncourt, Lemaitre ha inaugurato con “Ci rivediamo lassù” una trilogia di romanzi ambientati all’inizio del ‘900. E se il primo portava nel cuore della Grande guerra tutta la malvagità che alberga nei cuori umani, con “I colori dell’incendio”, tradotto da Elena Cappellini per Mondadori (pagg. 498, euro 20), lo scrittore francese, ospite di Pordenonelegge, ha voluto rievocare il periodo terribile della grande crisi del 1929. Recuperando il personaggio di una donna come Madeleine Péricourt, fragile, un po’ scialba e per niente pronta a prendere il posto del suo navigatissimo genitori, che alla morte del padre Marcel si trova all’improvviso a caricarsi sulle spalle il perso mostruoso della gestione di un importantissimo istituto finanziario.

Non ci si improvvisa pescecani. E Madeleine, sprovvista della terribile doppia fila di denti dei sanguinari abitatori dei mari, finirà a farsi fregare in fretta da quelli che prima le testimoniavano il loro amore e la loro dedizione incondizionata. Come Gustave Joubert, fidatissimo uomo ombra del padre, la fascinosa signorina Leonce, il colto precettore André, lo zio “mani bucate” Charles. Ma proprio quando la donna arriverà al fondo della disperazione, anche per difendere il fragilissimo figlio Paul, rimasto paralizzato su una carrozzella dopo un misterioso tentativo di suicidio, l’erede dell’impero finanziario Péricourt deciderà di vendicarsi. Trasformando le sue fragilità in altrettanti implacabili rese dei conti.

Ricreando gli scenari di una Francia, di un’Europa che stava correndo con grande incoscienza verso la catastrofe dell’avanzata del nazismo e di una nuova guerra mondiale, Lemaitre fa dei “Colori dell’incendio” un colto e divertito omaggio alla grande letteratura dell’800. Ma, al tempo stesso, regala ai lettori un libro in cui non divertirsi è impossibile. Perché il tratteggio dei personaggi (memorabile quello della cantante lirica Solange Gallinato), la ricostruzione dei maneggi economici, degli intrighi politici, delle miserie umane di un tempo che si illudeva di poter vivere sereno, dopo gli inutili massacri della Grande guerra, rendono questo fluviale, immaginario viaggio in un momento cruciale del ‘900, un ispirato, pirotecnico, irresistibile feuilleton d’autore.

“Quando scrivo, rendo omaggio di continuo alla letteratura – spiega Pierre Lemaitre -. Nei miei ‘Colori dell’incendio’, in più, ho voluto dichiarare apertamente tutto il mio amore per il romanzo dell’800. Per me, il libro ideale dovrebbe consentire al lettore di divertirsi senza sapere nulla della letteratura. Perché conta prima di tutto il piacere della storia e della sua comprensione. Poi, certo, chi è più esperto, chi ha già percorso un bel viaggio nel mondo delle storie, può impegnarsi a individuare, a scoprire qua e là una parodia di Proust, un accenno al grande Dumas, un citazione di Stendhal. Perché io amo giocare, ammiccare. E credo che per alcuni lettori sia anche questo un grande divertimento: dare la caccia ai dettagli, ai riferimenti”.

Dopo il Prix Goncourt si è sentito più motivato o più angosciato?

“Il Goncourt conferisce a qualunque scrittore che lo vinca un’enorme responsabilità. A me ha dato certamente più angoscia che motivazione”.

Madeleine esisteva già, aveva in testa la storia del suo “Incendio” prima del premio?

“Alla fine di ‘Ci rivediamo lassù’ sapevo che avrei scritto un seguito. Però non avevo idea di come strutturarlo. Solo quando ho cominciato a scrivere sono riuscito a stabilire tra me e la trama una certa distanza. Proprio questa sorta di distacco è stata necessaria per capire che la mia storia si inquadrava perfettamente nel periodo storico tra le due guerre mondiali. Tre decenni, tre libri, un progetto perfetto. Per quanto riguarda Madeleine non avevo molta scelta. Suo fratello era morto nel romanzo precedente. Lei era l’unica essere ancora viva. E mi sono reso conto che è molto più facile scrivere una storia che ruota attorno a un personaggio vivo che a un morto”.

Un personaggio che si trova a vivere un destino invidiabile e terribile?

“In effetti, Madeleine, alla morte del padre, si trova a essere l’ereditiera di un impero bancario negli anni ’30. Nel precedente romanzo era rimasta un po’ in ombra rispetto agli altri. Di lei sapevamo, in sostanza, due cose: che non era particolarmente avvenente e che, comunque, pur essendo una giovane donna non le mancava il carattere, il temperamento. Si era messa alla ricerca del cadavere di suo fratello, sul fronte di guerra, sfidando il parere contrario del  padre. Quindi mi sembrava perfetta per costruirle attorno il mio nuovo romanzo. Vedevo in lei la possibilità di sviluppare alcune idee interessanti dal punto di vista narrativo. Alla fine, mi sono congratulato con me stesso per non averla uccisa nel primo libro”.

Una figura in perfetto equilibrio tra luce e tenebre?

“Quando scrivo, voglio raccontare una storia che lasci libero il lettore di attribuire al romanzo la morale che più gli piace. Se metto tra le pagine il personaggio di una super canaglia, o di un imbecille, non ci sono discussioni. Quello è il loro status, punto e basta. Ma ci sono altre figure che possono beneficiare di un doppio giudizio: alla fine del mio libro, molti penseranno che Madeleine ha ragiona a portare fino in fondo la sua vendetta, altri invece sosterranno che la donna si è spinta troppo in là. Che il suo desiderio di punire le persone malvagie nei suoi confronti è smisurato”.

Un Conte di Montecristo al femminile?

“Devo confessare che tutta la storia è un omaggio a Alexandre Dumas. Alla fine del suo ‘Conte di Montecristo’, lo stesso Edmond Dantès è molto combattuto. Prima è sicuro di doversi vendicare, ma più sfoga la sua rabbia e il desiderio di rivalersi più viene tormentato dai dubbi”.

Quando racconta il mondo delle banche, dell’economia, la sensazione è che non sia cambiato molto…

“Mi sono fatto una grande esperienza con le banche. Dal momento che ho dovuto accendere vari mutui immobiliari. Per trent’anni quei signori mi hanno truffato, quindi credo di avere fatto una discreta esperienza nel settore. Certo, non è cambiato molto nel mondo dell’economia. Ma la prospettiva si è ingigantita. Se guardiamo come si comportano oggi i finanzieri, gli speculatori, i banchieri degli anni ’30 sembrano dei piccoli bottegai”.

Mario Vargas Llosa considera i romanzi come quelli che scrive lei letteratura light, d’evasione. Il Goncourt gli ha dato torto?

“Non voglio iniziare una polemica a distanza con Vargas Llosa. Ma anche i migliori autori possono dire qualche sciocchezza. Da questo punto di vista, lui è un esperto. Mi sembra che voglia comportarsi come un grande borghese della letteratura. Forse è un effetto perverso del Nobel, ma temo fosse così anche prima di vincere il premio. Si diverte a dividere il mondo in due parti: il suo e quello degli altri. Mi dispiace di non fare parte del suo mondo, perché amo i libri che ha scritto. In ogni caso, sono fiero del mio lavoro. Se qualcuno mi proponesse il Nobel, lo accetterei volentieri. Ma temo che non succederà mai”.

Ventidue editori le dissero di no, qualche anno fa. Ma il suo desiderio di scrivere era molto più forte?

“Credo di essere stato un romanziere prima di diventare un lettore compulsivo. Avevo 14 anni, anzi forse 10, e già mi divertivo a inventare storie. Vocazione che, in qualche modo, è stata contrastata proprio dalla lettura. Perché frequentando i grandi della letteratura provavo l’impressione che tutti i grandi autori fossero un po’ come Vargas Llosa. Ovvero, persone che non avevano una gran voglia di mescolarsi con me. Per un quarantina d’anni mi sono sentito un escluso, mi sono limitato ad ammirare i libri degli altri. Poi, invecchiando, ho perso un po’ di saggezza e mi sono detto: ‘perché no’. Qualche segnale mi lascia credere di avere avuto ragione”.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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