• 07/05/2019

Claudio Magris, cinque movimenti sul vivere e il morire

Claudio Magris, cinque movimenti sul vivere e il morire

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Ci dev’essere una prima smagliatura, che origina tutto. “Un punto preciso”, scrive Claudio Magris, da cui inizia il viaggio a ritroso nella propria vita. Ma per individuarlo bisogna fermarsi ad aspettare. Perché lo si può individuare solo nel momento preciso in cui il tempo non scorre più con implacabile furore rettilineo. Ma comincia a ripiegarsi su se stesso. Lasciando che i ricordi invadano i territori del presente. Stabilendo una coabitazione tra oggi e ieri, che fa apparire “normale soluzione di continuità” l’indossare un colletto inamidato, e ritrovarlo poche ore dopo sudato. Oppure, il gustare un buon sugo e accorgersi, all’improvviso, che si è rappreso sul fondo del piatto a formare un grumo immangiabile. Del tutto diverso dall’originale, eppure suo possibile, necessario alter ego.

Perché il tempo va e poi ritorna. E se Shakespeare è stato un grande poeta, ma da lui ci separa un abisso di secoli, che cosa significa: che il valore delle opere scritte solo per questo dovrebbe impallidire, sparire? Ecco, forse la smagliatura che origina il tutto è legata al concetto di morire. O, ancor prima, all’insopportabile destino dell’invecchiare. Ma se l’avvicinarsi allo spartiacque della vita, al conteggio alla rovescia dei giorni che ci rimangono, viene visto come l’andare verso “la saracinesca di una chiusa sul fiume che blocca lo scorrere delle acque”, non sarebbe giusto cercare proprio lì, in quel punto preciso, il realizzarsi del concetto di eternità dell’essere pensato da Parmenide? E, al tempo stesso, non sarebbe l’attimo giusto pere creare un ponte ideale tra le teorie più avanzate della Fisica quantistica, che vede nel tempo un continuum. Trasformando la distinzione tra presente, passato e futuro in qualcosa di fluttuante. Indeterminato.

“Sempre vuol dire vivere o morire?”, si chiede Claudio Magris.

Ed è proprio seguendo un tempo che sembra non avere inizio né fine che si muovono i personaggi del nuovo libro dello scrittore triestino. Cinque uomini, protagonisti di altrettanti racconti del volume “Tempo curvo a Krems” pubblicato da Garzanti (pagg. 91, euro 15), che si trovano a fare i conti con la propria vita e il tempo che rimane da spendere. Convinti che sia arrivato davvero il momento di esistere non solo per gli altri, per la conquista di un ruolo sociale, per la difesa del proprio status e delle ricchezze accumulate. Ma per trovare finalmente se stessi. Per essere.

Dopo aver regalato ai suoi lettori libri importanti come “Danubio” e “Microcosmi”, romanzi dall’architettura complessa e dall’articolata profondità come “Alla cieca” e “Non luogo a procedere”, Claudio Magris ha scelto di concedersi la gioia di scrivere cinque prose brevi. Che forse ricorderanno a qualcuno i suoi primi lavori narrativi, da “Illazioni su una sciabola” del 1984 a “Stadelmann” del 1988. Ma, soprattutto lo splendido “Un altro mare”, del 1991, dove nel raccontare la fugace, folgorante, tragica esistenza del filosofo  goriziano Carlo Michelstaedter, puntava gli occhi e tracciava il ritratto vivido e umanissimo del giovane amico Enrico Mreule, grecista e pensatore di valore, che alla fama preferì un vitalissimo anonimato.

E forse proprio all’Enrico Mreule di “Un altro mare”, ma anche in forma più estrema allo scrivano Bartleby del racconto di Herman Melville che finisce per ergere un muro in faccia alla vita con il suo ripetuto “I would prefer not to, preferirei di no”, fanno pensare i personaggi di “Tempo curvo a Krems”. Come “Il custode”, un ricco e ormai vecchio industriale che architetta una ritirata dalla vita del tutto inaspettata e incomprensibile per un uomo che ha esercitato il potere come lui. Dal momento che decide, di nascosto dalla famiglia, di passare gran parte delle sue giornate nell’angusta portineria di un palazzo di cui lui stesso è proprietario. Perché, scrive Claudio Magris, “tutta la vecchiaia, del resto, era un avanzare per indietreggiare: ci si inoltrava in un territorio sconosciuto per sottrarsi alla realtà che premeva da tutte le parti, spigolosa e invadente. Anche i profitti delle sue società, sempre più ingenti nel corso degli anni, erano stati un argine contro la difficoltà delle cose, fin dai soldi che aveva guadagnato quando era venuto a Trieste da Hannsdorf”.

E ancor più complicato è gestire il tempo della vecchiaia per “Il maestro”. Un insegnante di Conservatorio, Salman, arrivato a Trieste dal cuore della Moravia, che si trova a fronteggiare l’inaspettata fama dell’allievo Vilardi, diventato a suo volta Maestro. Il rampollo di una famiglia senza dubbio ricca, disposta a pagare le costose lezioni di violino, organizzata a tal punto da accompagnare l’insegnante a destinazione a bordo di un’automobile guidata dal fidato autista. Ma chi si sarebbe mai immaginato che quel mediocre allievo, un giorno, avrebbe consegnato al suo mentore lo spartito di una composizione in cui crede molto? Un’opera musicale che descrive come “un ritorno alla tonalità, in certo senso, a una gerarchia dei suoni… beninteso esperta, anzi nutrita dalla grande rivoluzione atonale”.

Spartito, quello del Maestro Vilardi, che il vecchio insegnante intuisce essere assai poca cosa. Ma che, poi, deciderà di approvare. Di lasciar andare per la sua strada, complimentandosi con l’allievo. Perché, in fondo, avrebbe fatto piacere, “forse più ancora a lui che all’altro” non andare in rotta di collisione. Dal momento che chiudere la questione con un gesto che, a quel punto della sua vita, “non gli sarebbe costato poi un grande sforzo”, sarebbe risultato più facile che alzare una diga. Più semplice che resistere.

Ma, a volte, a scompaginare la realtà, a suggerire traiettorie alternative alla realtà, possono essere episodi del tutto marginali. Come la conversazione che coinvolge, una sera, l’ospite speciale e corteggiatissimo di una cena nella Krems dove il tempo sembra confermare la teoria di chi lo vede non come un monolite immutabile. Ma, piuttosto, come qualcosa di malleabile, modificabile. Dal momento che, mentre sta conversando con una signora che vanta le sue stesse origini triestine, il protagonista accetta di fingere una conoscenza in comune: una vecchia compagna di scuola, la bellissima Nori, che non lo aveva mai degnato di uno sguardo. A quel punto, però, si innesca un paradossale meccanismo che lo porterà a dialogare al telefono con lei, come se tra loro ci fossero stati chissà quali trascorsi,. Forse addirittura amorosi.

E se nel racconto “Il premio”, un vecchio scrittore, vissuto sempre molto appartato, non fa fatica a resistere alle temporanee avance di ammiratori del tutto transitori, per ritornare in fretta alla propria vita chiusa in un angolo, il protagonista di “Esterno giorno – Val Rosandra”, che ricorda il Giani Stuparich di “Un anno di scuola”, capirà che della grande stagione culturale e umana della Trieste mitteleuropea resterà ben poco nel film che stanno girando ispirandosi al suo racconto. Tanto da non riconoscere più quelli che sono stati gli avvenimenti della sua stessa vita. Perché, passati attraverso il filtro della finzione narrativa, diventano una realtà altra.

Costruito da Claudio Magris alla frontiera tra una Trieste rinserrata dietro gli ordinati palazzi asburgici e il richiamo potente del mare, e una Mitteleuropa ormai prigioniera dei ricordi, “fatta di pianure, di montagne, di case, di luoghi in cui si sta ben coperti, di alberghi a poco prezzo nei quali ci si lava la faccia e le mani nel lavandino” e finisce “dove comincia l’acqua, qualsiasi acqua, qualsiasi mare”, “Tempo curvo a Krems” è un piccolo grande breviario per orientarsi nel complesso divenire dell’esistenza. Un gioco raffinato per provare a riconoscere dove finisce la realtà e dove inizia la finzione. Ben consci che soltanto lasciandosi trasportare dalla fascinazione del racconto si può capire il senso vero del vivere e del morire.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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