• 24/02/2020

Marta Barone: “Nella Città sommersa ho ritrovato mio padre”

Marta Barone: “Nella Città sommersa ho ritrovato mio padre”

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Parole superflue e silenzi. Troppo spesso resta solo questo, quando proviamo a ricostruire la vita di una persona amata. Oppure, prevalgono i ricordi interlocutori. Le contrapposizioni, le incomprensioni, il bisogno di affermare le proprie ragioni. Per contrastare quelle degli altri. Forse, Marta Barone avrebbe potuto fermarsi lì, quando ripensava a suo padre. Rivangando soltanto la pallida memoria di una sintonia condivisa con lui soltanto nell’infanzia. Diventata poi, troppo presto, insofferenza, distanza. Incapacità di riannodare i vecchi fili.

Poi, un giorno, all’improvviso da un armadio della madre, “accumulatrice cronica di onorata carriera”, sono saltate fuori delle vecchie carte. Copie degli atti del processo in cui Leonardo Barone veniva accusato di partecipazione a banda armata. Capo d’imputazione gravissimo, negli anni definiti “di piombo”. Che rischiava di seppellire per sempre dentro un carcere di massima sicurezza un uomo come il padre di Marta Barone. Un medico, un ragazzo che aveva affrontato la vita da sempre con grande responsabilità. Un idealista. Uno che credeva davvero nei migliori propositi del comunismo. Nella solidarietà, nella necessità di riequilibrare la società a favore degli ultimi.

Quelle carte, quei pochi fogli che non dicevano niente di L. B., se non costruire attorno a lui un fumoso, burocratico e livido castello di accuse, poi smantellato da un’opportuna assoluzione, hanno portato Marta Barone a desiderare l’impossibile. Ovvero, ricostruire la vita di un padre che aveva lasciato dietro di sé poche tracce sulla sabbia bagnata di una vita complessa e intensa. Fatta di amori e amicizie, di donne e compagni persi per strada, di case occupate e battaglie combattute dalla parte di chi si umiliava pur di ottenere un lavoro.

Tante idee, tante speranze, tante illusioni, ma nessuno scritto. Niente che spiegasse il pensiero di L.B.. Il suo transitare dalla religione cattolica a uno dei partitini marxisti-leninisti più dogmatici e velleitari: Servire il popolo. Fino a opporsi al delirio di onnipotenza degli “armati”. Di chi pretendeva di fare la rivoluzione seminando sangue e terrore. Affrontando la violenza dello Stato, l’ingiustizia, l’emarginazione di tanti lavoratori, degli emigrati, con il furore cieco della vendetta. Delle armi.

Ha preso forma così, in lunghi anni di ricerca e poi di scrittura, un libro prezioso, doloroso, curatissimo, che si fa leggere come un romanzo, anche se ha tutte le caratteristiche del memoir, della ricerca storica puntuale e rigorosa. Di certo, uno dei testi letterari più importanti pubblicati in questi primi mesi del 2020: “Città sommersa” (Bompiani, pagg. 300, euro 18). Lo firma Marta Barone, che finora si era fatta apprezzare per tre romanzi dedicati a un pubblico di ragazzi, oltre a un ottimo lavoro di consulenza editoriale e di traduzione.

Ma raccontare “Città sommersa” come un semplice viaggio alla ricerca del padre sarebbe riduttivo. Perché Marta Barone, che vive a Torino, è riuscita a fare di questo libro anche un lungo confronto con la Storia e le dinamiche politiche, sociali dell’Italia. Un periodo, quello tra gli anni ’60 e ’80, con cui abbiamo ancora paura di fare i conti. Forse perché, dopo il 1977, i sogni di libertà e uguaglianza, di un futuro migliore, sono franati verso una contrapposizione violenta tra lo Stato, che si aggrappava all’illusione di una democrazia imperfetta, e la “geometrica potenza” delle formazioni comuniste armate. Destinate a scavare un abisso di incomprensioni tra sé e chi volevano rappresentare: cioè il popolo, il proletariato.

Su questo fondale frammentato e inquieto, dove Torino si rivela laboratorio perfetto di contraddizioni e speranze, Marta Barone proietta, con sempre maggior forza, via via che scorrono le pagine del libro, l’immagine di un padre, di un medico, di un idealista che con lei non ha mai saputo parlare.

Una figura sorprendente e per nulla contraddittoria. Un simbolo di come l’Italia, il mondo, avrebbe potuto imboccare un’altra via, se le voci dei “non armati” non fossero state soffocate dal fragore degli spari. E ancora oggi, le testimonianze di chi ha conosciuto L.B. non possono risparmiarsi la nostalgia, quando riportano in vita per brevi istanti quella figura. Affidando al pudore, alla sensibilità della figlia, e alla sua capacità di trasformare questo magma di ricordi in un libro ipnotico, il compito di chiudere i conti con il passato. Ritrovando il riflesso del passato di Leonardo, nel presente di Marta Barone.

“I ricordi di mio padre – spiega Marta Barone – erano fatti soprattutto di silenzi e di parole superflue. A me, però, serviva qualcos’altro di lui. Scoprire il suo essere più segreto. La sua dolcezza, la gioia della condivisione. Quello che era stato per tanti amici, per i compagni di lotta che lo avevano apprezzato, per le donne amate. Il problema è che raccontare la realtà attraverso le parole non sempre è facile”.

La vita, trasformata in parole sulla carta, risulta falsa?

“È esattamente questa la sensazione che ho provato mentre scrivevo alcuni passaggi del libro. Per esempio, il dialogo con mia madre quando ha ritrovato le vecchie carte del processo, si è svolto esattamente così. Come si può leggere in ‘Città sommersa’. Però non mi convinceva. Mi sembrava finto. Romanzesco, ecco. Non aderente alla realtà, al modo di parlare tra persone che si conoscono bene. Che vivono insieme”.

Quanto è durato il viaggio alla ricerca di suo padre?

“Ho iniziato nel 2014. All’inizio, il mio tempo è stato assorbito interamente dalla ricerca dei documenti. Un passaggio per niente facile, dal momento che le carte del processo a mio padre erano reperibili nell’archivio dell’avvocato Bianca Guidetti Serra, conservato nel Centro Studi Piero Gobetti di Torino. Soltanto all’inizio del 2018 ho continuato a lavorare sulle carte”.

E poi?

“Ho capito che forma volevo dare a questa storia. È stata una vera e propria illuminazione sulla strada che dovevo seguire. Da lì. ho continuato a scrivere per gran parte del 2019”.

Perché ha scelto di inventare parecchi nomi dei protagonisti di questa storia, invece di usare quelli reali?

“Non volevo proteggere nessuno. Tanto meno i terroristi. Piuttosto, mi serviva poter scrivere senza pensare troppo alla realtà dei fatti. Era necessario che certi episodi, in questa forma di libro che è un po’ romanzo, un po’ memoir, ma anche in parte ricostruzione storica di quegli anni, fossero liberi di essere raccontati come volevo io. In maniera libera, pur senza snaturare le cose. Lo stesso discorso vale per le persone”.

Molte sono ancora vive?

“È complicatissimo raccontare persone ancora vive. Tanto più se hanno condiviso mesi, anni della vita. Per questo ho pensato da subito a una forma ibrida di libro. Non volevo scrivere una biografia di mio padre. E tanto meno una storia del periodo della lotta armata. All’inizio, mi sembrava che al centro di tutto ci fosse il processo in cui mio padre era imputato per partecipazione a banda armata. Poi, via via che procedeva il lavoro di ricerca, mi sono resa conto che quello era solo un episodio del lungo percorso che mi avrebbe portata a confrontarmi con L.B. Perché io volevo soprattutto capire perché il rapporto con mio padre non fosse mai stato sereno”.

Accettare di occuparsi di lui è stato tutt’altro che facile?

“È stata una scelta lenta, ma anche violenta. Perché ha significato rifare i conti con il mio rapporto con il padre quasi felice nell’infanzia, poi sempre più spinoso e pieno di cose non dette. Per questo, alla fine, la mia storia e la sua non possono che ricongiungersi. Anche se, di questo aspetto, mi sono resa conto solo quando ero in fase molto avanzata con la scrittura del libro”.

L.B. è rimasto sempre un idealista..

“Lui è rimasto fino alla fine contrario al progetto di Prima Linea, che arruolava ragazzini con famiglie disastrate o delinquenti pur di portare avanti la propria idea di lotta armata allo Stato. Mio padre, che in quel periodo era in cassa integrazione, spendeva gran parte del tempo nel cercare di dissuadere queste persone. Nel provare a convincerli che non avrebbero vissuto giornate memorabili, avventurose, ma si sarebbero condannati da soli a finire in un tritacarne. Come il povero Matteo Caggegi, conosciuto con il nome di battaglia Charlie, rimasto ucciso in un confronto a fuoco a Torino, il 28 febbraio del 1979, all’interno di un bar di piazza Stampalia a Torino, insieme a Barbara Azzaroni”.

Ragazzi fragilissimi?

“Spesso senza una famiglia alle spalle in grado di aiutarli. Quello che mio padre non poteva tollerare era che Prima Linea arruolasse proprio persone così fragili, isolate, senza la speranza di un futuro meno disperato”.

All’interno di Prima Linea non erano tutti concordi…

“Dopo il sequestro di Aldo Moro da parte delle Br, quando una delle parole d’ordine era diventata la ‘verticalizzazione dello scontro con lo Stato’, Bruno La Ronga, uno dei leader di Prima Linea, che nel mio libro ho chiamato Mure Galiani, decise di militarizzare e armare tutti quelli che si dimostravano disponibili. In quel momento, Sergio Segio si oppose, dicendo che non si poteva andare alla guerra con gente raccolta all’ultimo momento. Ma non venne ascoltato”.

L’ha stupita scoprire che suo padre, all’inizio, era un fervente cattolico?

“Quando me l’ha raccontato mia cugina, all’inizio ero sbalordita. Poi, però, lo stupore è passato in fretta. Perché se due anni dopo è entrato in Servire il popolo, in fondo lo ha fatto inseguendo sempre un ideale di felicità irraggiungibile. Ha spostato soltanto il luogo di realizzazione dal Cielo alla Terra. Dall’aldilà all’aldiqua. Se vogliamo, a differenza dei cattolici, quelli del Partito Comunista Marxista-Leninista non offrivano soltanto la carità ai poveri, ma spiegavano loro che con la rivoluzione si potevano cambiare le cose”.

Troppo dogmatici per fare breccia nella tragica realtà di quelli che Cristina Campo chiamava i “senza lingua”?

“Come ci si fa a ribellare se non hai nemmeno le parole per esprimere il tuo disagio? I volantini di Servire il popolo, pieni di riferimenti colti e ragionamenti politici astrusi, oltre allo stesso concetto di rivoluzione, erano del tutto incomprensibili per chi viveva nelle baracche fetide di Venaria. Per chi arrivava a Torino dal Sud dell’Italia, si ritrovava a vivere la condizione dello schiavo”.

A Roma era peggio?

“Lì Servire il popolo era strutturato come una setta, dominata dal leader assoluto Aldo Brandirali. A Torino erano un po’ più liberi. Se uno voleva andarsene, poteva farlo. Ma il fatto stesso che si considerassero solo loro i veri comunisti, mentre tutti gli altri erano revisionisti e traditori perché preferivano la via delle riforme alla rivoluzione, spiega già tutto”.

Aldo Brandirali, poi, ha seguito un altro dogma?

“Già negli anni ’80 si è avvicinato a don Luigi Giussani e a Comunione e Liberazione. Per passare, nel Duemila, a fare politica con Forza Italia prima, con il Popolo della Libertà poi”.

C’è stato chi si è spinto ancora più in là, come Roberto Sandalo.

“Lo chiamavano Roby il pazzo già quando stava in Prima Linea Poi si è pentito, ha aderito alla Lega,  ha trovato un nuovo nemico: i musulmani. Per andare a mettere una bomba artigianale nel 2007 alla moschea di via Quaranta a Milano. E assaltarne altre ad Abbiategrasso e a Brescia. È morto nel carcere di Parma nel 2014”.

Insieme a suo padre è diventata il centro di gravità di “Città sommersa”?

“All’inizio dicevo che avrei voluto restare fuori dall’inquadratura. Pensavo di avere capito tutto su mio padre con l’arroganza che si ha a vent’anni. E, invece, raccogliendo testimonianze e leggendo documenti ho capito che avrei dovuto essere io uno dei punti di forza del racconto. Così, il libro ha preso la sua forma definitiva”.

Difficile passare dai romanzi per ragazzi a un libro come questo?

“Avevo bisogno di tempo. I romanzi per ragazzi li ho scritto parecchi anni fa. Per dare forma a questa storia serviva che, prima, fossi io stessa a crescere. La mia scrittura, fino a cinque anni fa, non era in grado di reggere l’emotività, il coinvolgimento che richiedeva ‘Città sommersa’. Quando è morto mio padre non sono diventata adulta. Era necessario un altro rito di passaggio. Questo libro credo fosse quello giusto per me”.

<Alessandro Mezzena Lona<

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