• 18/09/2020

Federica Manzon, illusioni e sangue nel “Bosco del confine”

Federica Manzon, illusioni e sangue nel “Bosco del confine”

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Nazionalismi, patriottismi, irredentismi, separatismi. Quattro prole per indicare un concetto solo: la voglia di innalzare muri. Il desiderio sfrenato, e malsano, di tracciare confini tra sé e gli altri. Di creare barriere sicure che preservino “noi” dalla possibile contaminazione con “loro”. Che tengano al riparo cultura, tradizioni, credenze, ricordi, di chi, tutto sommato, si sente un gradino più in altro degli altri. E non sa riconoscere la necessità dello scambio, del mescolarsi, dell’uscire dal proprio angusto territorio per immergersi nel mondo largo.

“Hai mai visto una betulla ritrarre i rami per non sconfinare in territorio straniero?”. È da qui, dal confronto con la foresta, con gli alberi, con un mondo di creature viventi che non conosce il concetto di separazione, che fa strisciare le proprie radici fino a dove arrivano, che prende le mosse il nuovo libro di Federica Manzon. Si intitola “Il bosco del confine”, lo pubblica la casa editrice Aboca (pagg. 175, euro 14) nella splendida collana Il bosco degli scrittori. Un progetto, coordinato dal poeta Antonio Riccardi, nato per “consentire ad alcuni tra gli scrittori più interessanti del nostro panorama letterario di raccontare il mondo, il loro e il nostro, proprio a partire da un albero”.

“Il bosco del confine” verrà presentato da Federica Manzon a Pordenonelegge 2020. Insieme alla scrittrice, domenica 20 settembre alle 17 nell’Auditorium della Regione a Pordenone, ci sarà Antonio Moresco, che ha scritto sempre per Aboca “Il canto degli alberi”.

Federica Manzon non si è accontentata di un albero solo. Ha voluto che i suoi personaggi si muovessero nell’esoterica maestosità dei boschi. Per rivivere, insieme a loro, quello spirito tra l’avventuroso e il romantico che si prova quando i nostri passi ci spingono a esplorare le foreste, “come se guardassimo il mondo per la prima volta”.

Ma la scrittrice di Pordenone, che è responsabile della didattica della Scuola Holden di Torino, ha debuttato con il romanzo “Come si dice addio” nel 2008, e tre anni dopo ha vinto il Premio Campiello – Selezione della Giuria dei Letterati con “Di fama e di sventura”, non ha scelto un bosco a caso. Innamorata di Trieste (a cui ha dedicato l’antologia di scrittori, da lei curata, “I mari di Trieste”, uscita per Bompiani nel 2015), della sua travagliata storia, del territorio aspro e dolcissimo, del mare che rappresenta un vero e proprio metronomo del tempo, ma anche di quel mondo di confine così martoriato e inquieto, si è lasciata trasportare dal racconto di un mondo affascinante e inquieto. Quello che si allarga verso l’ex Jugoslavia. Quello che è stato teatro della guerra più violenta, irrazionale e sanguinosa della seconda metà del ‘900. Un conflitto in cui si sono scannate popolazioni che, fino a poche settimane prima, convivevano in un equilibrio che sembrava perfetto.

“Il bosco del confine” diventa, così, un romanzo di formazione, uno sguardo limpido e impietoso sui meccanismi del vivere, ma anche il racconto del naufragare nel sangue di un sogno cullato per molto tempo: quello di far convivere all’interno di una Repubblica socialista, come l’ex Jugoslavia, cattolici, ortodossi, marxisti e musulmani. Di spingere a sentirsi fratelli popoli divisi da antiche diffidenze e differenze come sloveni, croati, serbi, bosniaci, montenegrini e macedoni.

Al centro del romanzo, che Federica Manzon ha scritto a tre anni di distanza da “La nostalgia degli altri”, c’ìè il personaggio di una ragazza, Schatzi. La figlia di un pacifista di origini slave che crede fermamente nella convivenza tra le persone e nella libertà di muoversi nel mondo senza doversi fermare davanti ai confini. Proprio per questo, il papà la trascina in lunghe camminate per i boschi. La aiuta a esplorare prima quelli più rassicuranti, che fanno corona a Trieste sull’Altipiano carsico. Per spingersi poi verso foreste più oscure, popolate di orsi e di uomini che vengono descritti come sanguinari “con il coltello tra i denti e la barba da pastore”. Convincendola che, spesso, imparare a leggere la Natura aiuta a rivedere, a mettere in discussione anche le proprie idee sulla società degli umani. Dato che, nei boschi, nessuno ha mai visto un betulla ritrarre i propri rami per non sconfinare.

E Schatzi si fida. Fino a spingersi nell’esplorazione di quel mondo così vicino, così lontano, proprio quando stanno per cominciare le Olimpiadi invernali più sfarzose e improbabili: quelle di Sarajevo del 1984. Giochi internazionali, a cui parteciperà pure l’America, rimangiandosi il proposito di boicottare l’evento già attuato, quattro anni prima, ai Giochi generali di Mosca, per sottolineare la propria lontananza dal regime dell’Unione Sovietica. Manifestazione, quella organizzata nella città bosniaca, che avrà come mascotte il tenero lupo Vučko, simbolo del carattere fiero e solitario delle popolazioni che abitano quelle terre.

E se nel giorno del suo sedicesimo compleanno, Schatzi riceve dal padre un biglietto per assistere alle Olimpiadi di Sarajevo, dove insieme all’amico Luka si divertirà a sfidare la maestosa quiete dei boschi del Trebević, pochi anni dopo dovrà fare i conti con le notizie frammentate, imprecise e spaventose che arrivano proprio da lì. E che parlano di pulizia etnica, di cecchini che sparano all’impazzata sulla gente inerme della città, di un pazzo che va declamando poesie e massacrando la gente con il sorriso sulle labbra. Schegge di Storia che fanno sentenziare al mondo, con superficiale pressapochismo, che ce lo si poteva aspettare un bagno di sangue del genere da uomini con il coltello tra i denti e la barba da pastore.

Con “Il bosco del confine”, Federica Manzon intreccia, in una storia dal fascino sottile, lo smarrimento di chi guarda quegli anni animato dalla sensazione di avere perso una perte dei propri sogni. Nel tradimento fatto nei confronti della Natura, accerchiata sempre più dall’inutile avanzata del cemento, derisa e ferita dall’ipertrofico desiderio di sviluppo di un progresso ormai fuori controllo. Ma anche nell’avere abbandonato alla follia dei nazionalisti, di chi desidera un mondo delimitato da altissimi steccati, un progetto come quello dell’ex Jugoslavia. Capace, tra mille errori e altrettanti dubbi sulla claustrofobica megalomania di Tito, di realizzare il modello della convivenza tra popoli. Progetto che ha lasciato, dietro a sé, sempre nuovi muri. Sempre più forti diffidenze. E chilometri di filo spinato, là dove le betulle continuano ad allungare le proprie radici senza preoccuparsi affatto se, un giorno, dovessero trovarsi a  sconfinare in territorio straniero.

<Alessandro Mezzena Lona

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