• 21/09/2022

Elisabeth Åsbrink: “Racconto l’abbandono per capire la mia storia”

Elisabeth Åsbrink: “Racconto l’abbandono per capire la mia storia”

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“Per capire la mia solitudine avevo bisogno di capire quella di mia madre. E per capire lei dovevo prima capire mia nonna, Rita”. Non è Elisabeth Åsbrink che pronuncia queste parole, ma il suo personaggio inventato: Katherine. Perché non è facile guardare negli occhi il dolore, la solitudine, l’abbandono, in prima persona. Ma lei, che è una scrittrice molto brava, sa bene che raccontare una storia, anche la più intima, quella che ti fa sanguinare la mente e il cuore, è possibile stando al riparo della finzione. Per comprendere davvero se stessi. Per trovare una risposta a tanti perché. Dal momento che, in un romanzo, si può dare “una volta per tutte un nome all’ombra che mi ha seguito per una vita intera”. Celandosi dietro una donna di carta, inventata a tavolino.

Dolore, anche solitudine. Alla fine, Elisabeth Åsbrink ha capito che la parola giusta per raccontare la sua storia, e quella della famiglia, era abbandono. Titolo perfetto per lo splendido libro che l’autrice svedese di Göteborg ha scritto dopo “1947”, in cui affrontava già la storia di suo padre, e “Made in Sweden”. Si intitola, appunto, “Abbandono” , lo ha tradotto Alessandra Scali per la sempre ottima casa editrice Iperborea (pagg. 319, euro 18,50), e ricostruisce la storia della nonna Rita e della mamma Sally affidandosi alla voce dell’immaginaria Katherine. Una bambina che imparerà presto a leggere il cuore di tenebra della vita. Ben sapendo che ci si può affidare alla forza di un libro, quando si prova a capire meglio se stessi. Perché “è un romanzo, e quindi tutto ciò che racconta è vero”.

Nella realissima mistificazione letteraria, allora, scorrono sotto gli occhi del lettore la storia di nonna Rita, che nasce in Inghilterra, incontra presto l’amore nella persona del fascinoso Vidal. Ma scopre che un ebreo sefardita, due volte sradicato dalla Spagna e dalla natia Salonicco, non sposerà mai una ragazza che non fa parte del suo mondo. Così la prima figlia Sally, mamma della protagonista Katherine, crescerà vedendo sempre pochissimo il padre. E quando avrà l’età per andarsene a vivere da sola, sceglierà un posto lontano: Stoccolma. Dove, però, si innamorerà dell’ebreo di origine ungherese Endesz Gyoirgy, destinato a non renderla felice. A sparire dalla sua vita in fretta, prima di essere fagocitato dall’inghiottitoio di vite umane dell’Olocausto.

Toccherà a Katherine trovare l propria strada per non arrendersi al dolore. All’abbandono. E quando sarà abbastanza forte da sentirsi una Guerriera, potrà andare alla ricerca delle proprie origini nella Salonicco di oggi. Scoprendo, tra l’altro, che le lapidi del vecchio cimitero sefardita, raso al suolo, vennero poi riutilizzate per costruire un teatro. Per realizzare i muretti di delimitazione in una delle piazze considerate punto di incontro per gli abitanti e i turisti. Per mettere assieme il portone della chiesa di Nikolaos Orphanos. Ma anche per lastricare i marciapiedi di viale Stratou.

“Volevo parlare di me stessa in ‘Abbandono’ – spiega Elisabeth Åsbrink, che ha presentato il suo nuovo romanzo a Pordenonelegge 2022 -. Però volevo usare la terza persona, nel racconto, per prendere le distanze dal personaggio. Ovviamente, ogni storia scritta è governata dalla dualità verità-finzione. Proprio perché ogni autore si trova rappresentare diverse verità sotto altrettanto difformi punti di vista”.

Punti di vista che, nelle famiglie, sono molto variabili?

“All’interno delle famiglie, ognuno manifesta il proprio punto di vista. La propria verità. Io ho cercato di unire la finzione con i fatti della vita reale. La saggistica ha un vantaggio: che i fatti sono reali e verificabili. Però la narrativa riesce a raccontare le vicende della vita seguendo dei processi che stanno all’interno della nostra mente. E che, anche se non sono tangibili, vengono vissuti attraverso le emozioni del racconto”.

È stato difficile trovare la voce per dare forma a una storia fatta di diversi destini incrociati?

“Per trovare la voce del racconto ho dovuto immaginare che tutte questi punti di vista fossero un coro. Così, poi, ho potuto individuarli singolarmente: Rita, la nonna; Sally, la madre; Katherine, che sono io ma non sono io, la bambina che la vita trasforma in una Guerriera. Tutte queste voci rappresentano me, la mia storia, ma anche qualcosa di puramente narrativo”.

“1947” e “Made in Sweden” sono state tappe di avvicinamento a “Abbandono”?

“Ogni libro che scrivo può essere considerato una tappa di avvicinamento a quello che pubblicherò dopo. In realtà, adesso so molto di più sulla mia famiglia, sulla storia di quegli anni, sull’orrore dell’Olocausto. E mi rendo conto che questo percorso mi ha consentito di mettere meglio a fuoco il mio essere, il percorso che ho fatto, quello dei nonni e dei genitori, in rapporto con la società e con la Storia”.

La storia di suo padre è esemplare?

“Lui era un ebreo ungherese non praticante, non particolarmente religioso o attaccate alle tradizioni. Eppure è scomparso nell’Olocausto soltanto perché era ebreo”.

La paura, come lei racconta, può spingere le persone a rinnegare la propria origine?

“Attraverso il personaggio di Sally ho voluto far capire come, attraverso la paura per quello che sta accadendo, qualcuno può arrivare a odiare se stesso. Lei, infatti, cerca di allontanarsi il più possibile dall’ebraismo dando ascolto al suo istinto di sopravvivenza. E credo che i lettori capiranno perfettamente che non si tratta di antisemitismo, ma di un desiderio disperato di salvare se stessi”.

Doloroso rivangare gli anni della persecuzione?

“Questo dolore lo porto sempre dentro di me. E cerco di trasferirlo dentro le pagine che scrivo. No, non credo che abbia una funzione terapeutica. Semplicemente esprime la mia condanna, il mio odio verso quello che hanno fatto agli ebrei. In ogni caso, la sofferenza rimane”.

Le piacerebbe vedere “Abbandono” trasformarsi in un film?

“Stanno lavorando per fare di ‘1947’ un docu-film e un altro libro, ancora non tradotto in italiano, in una serie tv. Quest’ultimo racconta la storia di un drammaturgo svedese, Lars Norén, morto durante la pandemia di Covid, che è stato implicato in fatti legati alla criminalità. Vent’anni fa aveva coinvolto nella realizzazione di una piéce teatrale tre detenuti, due dei quali avevano trascorsi nazisti, grazie a un permesso speciale per poter recitare e andare in tournée. Il giorno dopo l’ultima replica dello spettacolo uno di loro prese parte a una rapina in banca uccidendo due poliziotti. Io ho voluto ricostruire tutta la vicenda, cercando di capire i passaggi della storia. Il problema con il cinema è che uno scrittore, come me, non ha più il controllo delle sue storie. Diciamo che sto vivendo quest’esperienza  come una tragedia personale”.

Che tipo di scrittrice è Elisabeth Åsbrink?

“Il mio metodo di lavoro è ossessivo. All’inizio raccolgo molte informazioni sulle storie che voglio scrivere. Ogni tanto faccio una bella doccia per cancellare tutti i pensieri e ripartire da zero. Alterno un lavoro di scrittura più sistematico con uno assolutamente intuitivo. Mi sveglio presto, anche alle cinque del mattino, e proseguo fino a quando riesco. Anche per diverse ore, o solo per pochi minuti. Direi che il mio modo di lavorare è una sorta di metodica intuitività”.

La scrittrice Federica Manzon, parlando di “Abbandono” a Pordenonelegge, ha definito i suoi libri un lavoro di archeologia emotiva. Si riconosce in questa definizione?

“Archeologia emotiva è qualcosa di diverso dalla psicologia. Perché, oltre agli aspetti legati più all’inconscio, ai pensieri profondi, implica un lavoro di messa a punto sulla Storia e sui luoghi in cui si muovono i personaggi. Si, mi riconosco in questa definizione”.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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