• 24/12/2022

Silvia Cassioli, la provincia feroce e i delitti del “Capro”

Silvia Cassioli, la provincia feroce e i delitti del “Capro”

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Nessun esorcismo ha più potere della bellezza. O, almeno, così ci illudiamo che sia. E allora l’incanto di una città-gioiello come Firenze dovrebbe scacciare le tenebre del Male. La Piazza dei Miracoli di Pisa potrebbe ridicolizzare le ombre inquiete di chi non si rassegna a vivere nella luce. Lucca e Siena, ma anche la campagna toscana tutta, stanno lì a dimostrare come i peggiori incubi non possono prevalere sull’incanto di borghi e boschi, vecchie stradine e campi illimitati. Come spiegarsi, allora, il terrore senza fine seminato dal killer delle coppiette? Da quel misterioso assassino (potremmo tranquillamente prevedere anche il plurale) che non si stancava mai di seminare il terrore proprio lì, in giro per la Toscana. Di gran lunga una delle regioni più incantevoli d’Italia.

Quindi, Mostro di Firenze, a ben pensare, è un ossimoro. Perché prevede l’unione tra due parole, due concetti, due realtà completamente antitetiche. Una votata all’orrore, l’altra alla bellezza. Eppure, la cronaca ci ha dato prova che due mondi lontanissimi come quello della bellezza pura di Firenze e della Toscana, e quello dell’orrore assoluto di un assassino che uccide nel lungo arco temporale di 17 anni, possono convivere senza problemi. Anzi, formano una famiglia talmente affiatata che ancora oggi, sui dati concreti di quella vicenda, continuiamo a interrogarci. Albergando nei nostri pensieri più dubbi che certezze.

“Queste cose accadono solo in America o nei film dell’orrore, dice la gente. Non in Toscana. Non fra le nostre colline”. Ed è proprio da qui che parte Silvia Cassioli per ripercorrere le vicende del Mostro di Fiorenze nel suo libro “Il capro” (il Saggiatore, pagg. 399, euro 19). Da lei, che scrive per riviste come “L’immaginazione” e “Il Verri”, e che ha deliziato i lettori più attenti con un libro del tutto fuori rotta come “Unghie, plantari, gambe di legno e altri ex-voto fantastici”, non ci si poteva certo aspettare una ricostruzione a mezza strada tra l’inchiesta giornalistica e quella giudiziaria. E nemmeno il classico romanzo che parta da una serie di dati reali per poi sfondare il muro della verosimiglianza per dilagare libero nei territori della fantasia.

No, Silvia Cassioli ha voluto fare a modo suo. Prima di tutto sperimentando un linguaggio narrativo del tutto personale. Insieme alle parole formali degli investigatori, dei magistrati, degli avvocati, infatti, ha impastato il toscano della gente qualunque e il loro esprimersi spesso accidentato. Ottenendo un effetto straniante ed efficacissimo, con il birignao delle parole addolcite, sminuite, accarezzate da falsi vezzeggiativi, che toglie alla storia ogni tipo di retorica e di burocratico formalismo. Catapultando il lettore esattamente al centro di una vicenda maledettamente complicata, frastagliata, piena di contraddizioni e di zone grigie, di omertà e incomprensioni, di ipotesi e teoremi falliti. Dimostrandoci come, a distanza di poco meno di quarant’anni dall’ultimo delitto attribuito al Mostro nel 1985, e a 54 dal primo registrato nel 1968, questa storia sia ancora capace di affascinare e turbare.

Silvia Cassioli non. ha scritto “Il capro” per regalare rassicuranti certezze. Anzi, dalle quasi quattrocento densissime pagine del libro nessuno esce con un’assoluzione completa. Non gli investigatori, pressapochisti e pasticcioni, non i magistrati, disorientati e troppo inclini a dare credito a teoremi accusatori basati su prove fragilissime. Meno che meno gli imputati: a cominciare da Pietro Pacciani, il Vampa, uomo violento, rozzo e furbissimo. Morto da uomo libero, dopo l’assoluzione dalle accuse nel processo di secondo grado, visto che il malore fatale lo colse prima che la Cassazione potesse emettere una sentenza definitiva. Graziato dalla stangata definitiva anche grazie alla campagna garantista di un noto critico d’arte e all’appoggio di una suora preoccupata soprattutto della salvezza della sua anima e degli investimenti finanziari del presunto assassino. E non se la cava a buon mercato nemmeno lo squallido teatrino dei “compagni di merende”, con personaggi del calibro dell’uomo dal vibratore facile Mario Vanni, di Giancarlo Lotti dalla memoria a intermittenza, di Giovanni Faggi, assolto poi “per non aver commesso il fatto”: talmente naïf e imbarazzanti da sembrare incapaci di architettare ed eseguire gli omicidi delle quattordici persone. Ammazzate quasi sempre con lo stesso rituale.

Ma da “Il capro” emerge anche la sterminata teoria delle ipotesi. Da quella che puntava il dito contro un uomo appartenente alle forze dell’ordine, ai sospetti mai confermati e mai smentiti che accompagnarono la fine misteriosa di un famoso medico, ma anche quella di un farmacista accusato dalla sua stessa ex moglie. E poi assolto perché la donna aveva trasformato la sua deposizione in un gorgo di deliranti affermazioni. Senza dimenticare la teoria che fosse una sorta di setta satanica ad ammazzare le coppiette. Per poi profanare il corpo delle donne togliendo il pube e la mammella sinistra. Macabri feticci che sarebbero stati oggetto di un sordido commercio a cui erano interessati misteriosi pervertiti.

Non è il romanzo definitivo sul mostro di Firenze, come recita la quarta di copertina, per il fatto stesso che manca una verità credibile e condivisa. Però “Il capro” è un ritratto potente, nitidissimo, implacabile, di un micromondo come quello della campagna che gravita attorno a Firenze governato da arcaiche pulsioni, da incredibili superstizioni, da maligni desideri, da una legge patriarcale ottusa e nociva, da un latente disprezzo per le donne che arma la mano di persone incapaci di controllarsi. Silvia Cassioli sa dare voce agli aspetti più oscuri e grotteschi, più paradossali e contraddittori, della vicenda. Chiamando sul banco degli imputati anche chi, allora, credeva di operare nel nome della legge. Raccontando finti credenti, che usavano la religiose come scudo per nascondere le proprie deviazioni, politici dalle frequentazioni ambigue, puttane trattate come carne da macello, in un calderone di sessuofobia e bigottismo.

Dalle profonde tenebre di questa vicenda esce fatta a pezzi soprattutto la ferocia della provincia italiana, che ha assistito attonita e inerme, ma in parte anche complice, alle scorribande dei mostri di Firenze. E che ancora non ha saputo mettere la parola fine a una vicenda piena di reiterati tormenti.

<Alessandro Mezzena Lona

 

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