Prima la scrittura era un affare tra lei e Dio. Un’ossessione tutta religiosa, che le impediva di capire quante storie aspettassero di fiorirle dentro. Poi, Catherine Lacey ha deciso di allontanarsi dalla religione e da tutte le precarie convinzioni della sua adolescenza. Ha abbandonato quel porto sicuro e si è lasciata portare via dalla corrente impetuosa della sua voglia di guardare la vita da vicino. Di riflettere su quanto difficile, ma anche terribilmente affascinante, sia fare i conti, giorno dopo giorno, con tutte le trappole dell’esistenza.
Così in breve tempo, Catherine Lacey, americana di Tupelo, Mississippi (“Sì, conosco la canzone che Nick Cave ha dedicato alla mia città. Ma non so dire se mi piace, forse non me la ricordo così bene. Il fatto è che a me non piace Tupelo”),
ha bruciato le tappe verso il successo. Finendo nella lista dei migliori libri dell’anno del “New Yorker”, e di molti altri giornali e riviste, con il suo romanzo d’esordio “Nessuno scompare davvero”. E conquistando un posto di tutto rispetto nella lista dei Best Young American Novelists che “Granta” compila ogni decennio.
La sua opera seconda è arrivata proprio quest’anno a confermare tutto il bene che si dice sulla scrittrice trentatreenne: “Le risposte”, tradotto da Teresa Ciuffoletti per Big Sur (pagg. 332, euro 17,50), è stato al centro di un evento a Book Pride, la quarta edizione della Fiera dell’editoria indipendente ospitata dagli splendidi spazi del Base a Milano .
E una vita piena di dolori, incertezze, occasioni mancate quella di Mary, la protagonista de “Le risposte”. A trent’anni si trova tormentata da un sacco di disturbi psicosomatici e senza un lavoro che le permetta di vivere dignitosamente. Di certo non l’ha aiutata l’ossessiva educazione ricevuta da un padre fanatico e da una madre troppo remissiva. E molti soldi le costa una bizzarra terapia new age che funziona come le medicine placebo, perché l’effetto positivo dura fino a quando lei non trova un altro rovello capace di tormentarla. Quando un misterioso gruppo di ricercatori le propone di entrare a far parte dell’Esperimento Fidanzata, in cambio di un bel gruzzolo di denaro, lei accetta senza riflettere troppo.
E non si può dire che il lavoro sia di quelli duri duri. In pratica, Mary accetta di essere la fidanzata virtuale, artificiale di un personaggio del mondo del cinema troppo famoso ed esposto al gossip per crearsi una sua serena, normale storia d’amore. L’Esperimento sembra funzionare fino a quando il team di ricercatori pretende di avere più controllo sulla vita della ragazza.
“Mi piacciono i personaggi ricchi sul piano drammatico – spiega Catherine Lacey -, quelli che attirano le storie, che le provocano attorno a sé. Quelli, insomma, che stanno vivendo un momento difficile, che si inseriscono male nel contesto in cui vivono e si sentono a disagio con se stessi. Però, mi rendo conto, dopo aver pubblicato il secondo romanzo, che la critica tende a leggere questi libri come ritratti di donne che non trovano il loro posto nel mondo. E non vengono interpretati, invece, come racconti di persone che provano disagio nei confronti dell’esistenza”.
Non le interessa raccontare cosa significa essere donna nel contesto sociale?
“No, non parto da quel punto di vista. Mi interessano le questioni esistenziali. Certo, i miei personaggi sono donne che mettono in discussione la propria vita. Però credo che si trovino ad affrontare certi disagi, certi dubbi, non in quanto esponenti del mondo femminile. Ma perché sono persone in crisi”.
Nelle “Risposte” la religione, le suggestioni spirituali hanno un ruolo centrale e inquietante. Perché?
“Sono cresciuta nel Mississippi in una famiglia che considerava la religione un affare molto importante. Anche se, per essere una famiglia del Sud, si considerava abbastanza progressista. Non erano, insomma, cristiani fondamentalisti. Andavamo in chiesa diverse volte nel corso della settimana, ho frequentato anche i campi scuola della parrocchia. Il libro più importante, per me ragazzina, era la Bibbia. L’ho letta, riletta, credevoi ciecamente a quello che raccontava. Forse ero io quella più convinta tra i miei parenti. Poi, crescendo, mi sono messa a leggere altro. Ho preso le distanze da questa ossessione. Adesso sono convinta che la religione sia una delle attività umane che più ci danneggiano”.
In che senso?
“Tutti noi dovremmo essere buoni perché lo vogliamo, perché abbiamo scelto di essere così. Non serve che qualcuno ci spinga a fare quella scelta. Invece, la religione ci porta a essere distanti tra noi, a contrapporci, ad ammazzarci. Proprio perché scava un solco tra chi crede e chi non crede. Ecco, per allontanarmi dalla mia ossessione per la Bibbia, per l’insegnamento cristiano, ho dovuto fare un percorso di liberazione. Potrei dire quasi di purificazione. E non dimentico il tempo in cui mi sentivo molto forte, sicura, perché credevo di avere tutte le risposte in mano”.
Forse il punto è proprio quello: trovare le risposte?
“È così, assolutamente. Infatti non dimentico quanto mi sentissi al sicuro quando potevo delegare alla mia fede religiosa ogni risposta alle domande che mi ponevo. Adesso, però, non tornerei indietro per nessun motivo”.
L’Esperimento Fidanzata è un po’ un ritratto del nostro mondo sempre meno reale, sempre più virtuale?
“Non pensavo alla corsa del nostro mondo verso una schiavitù tecnologica, mentre mi trovavo a inventare e a raccontare l’Esperimento Fidanzata. Però, adesso, mi rendo conto che il mondo sta seguendo una deriva preoccupante, che spaventa. E allora credo che questo senso di disagio si sia insinuato comunque nella mia scrittura. Inconsciamente. Così, quando rileggo il testo, mi rendo conto che non sbaglia chi ci vede un richiamo forte allo strapotere dei social network. E c’è di più: trovo un’inquietante vicinanza con quello che dicevo prima a proposito della religione”.
Cioè?
“Mi sembra che troppe persone proiettino su internet, sui social network, la speranza, l’illusione, che siano strumenti forti, capaci di liberarci dal Male. Ma è falso. Esattamente come quando deleghiamo alla religione il compito di indirizzare la nostra vita. Io, al contrario, sono convinta che grazie all’abuso delle tecnologie stiamo marciando compatti verso una sorta di obnubilamento. Consegnandoci prigionieri a una delusione nei confronti della vita ancor più forte. E lo dico rendendomi conto che non sono un’esperta delle nuove forme di comunicazione”.
Catherine Lacey scrittrice: come e perché?
“Quando frequentavo le lezioni di catechismo, un giorno mi regalarono un quaderno. Credo che la maestra ci spingesse a scrivere delle preghiere. Io, in realtà, ho iniziato a segnare anche altri pensieri su Dio e sulla realtà che mi circondava. Rileggendoli, adesso, mi rendo conto che parlavo molto di Paradiso e Inferno, di come si comportavano le persone, di quello che era il mio approccio morale alle cose”.
E poi?
“A un certo punto ho capito che il mondo era molto diverso da come me l’avevano raccontato. E allora ho dato sfogo a tutti i dubbi che mi affollavano la mente. Ma non c’erano insegnanti pronti a incoraggiarmi a seguire quella strada, ad affidare alla scrittura il mio smarrimento. Infatti, non avrei mai pensato di poter vivere di letteratura. Anzi, mi tormentavo a pensare quali lavori avrei potuto fare per guadagnare. A un certo punto, però, mi sono iscritta a un corso di scrittura creativa”.
È stata quella la svolta?
“No, non all’inizio. Non ero ambiziosa, pensavo di dedicarmi alla saggistica immaginando di procurarmi un lavoro. Magari avrei potuto fare la giornalista, intervistare le persone. Niente di creativo, insomma. E anche quando ho provato a scrivere un libro di non-fiction, mi sono resa conto che non prendeva forma”.
Il primo libro di narrativa è arrivato quasi per caso?
“Sì, perché i racconti sparsi che poi ho trasformato in romanzo erano nati così, in maniera del tutto inconsapevole. Anzi, ero talmente lontana dall’idea di fare la scrittrice che ho firmato il libro con il cognome di mio padre, Lacey, non con quello che risulta all’anagrafe. Il motivo? Non volevo che la mia famiglia scoprisse la mia anima letteraria. E ho continuato a credere che non si sarebbero accorti di me, del fatto che pubblicavo storie, fino a quando ‘Nessuno scompare davvero’ è stato accolto molto bene dalla critica e dai lettori”.
E adesso?
“Sono diventata una megalomane. Mi sento super sicura di me. Sento che posso e voglio creare libri belli, lunghi, importanti. Insomma, mi sono abituata all’idea di essere una scrittrice”.
<Alessandro Mezzena Lona