Ormai, tutti sanno tutto di noi. Dai social arrivano gli auguri di buon compleanno da persone che forse mai incontreremo dal vivo. Giornali e blog, siti internet e programmi radiofonici, stazioni televisive e perdigiorno specializzati nel farsi gli affari degli altri, si divertono a raccontare vita, morte e miracoli di chiunque. E svelano i retroscena più incredibili, molto spesso assai imbarazzanti, di storie che sembrano protette da segreto assoluto. Eppure, chiunque si trinceri nel proprio silenzio, eviti i contatti, sfugga alle continue violazioni della privacy, diventa subito un elemento di disturbo per la società. Una nota stonata. Qualcosa di inquietante.
A distanza di quasi due secoli, ancora ci si interroga sul mistero di Kaspar Hauser. Di quel ragazzo di 16 anni che il 26 maggio del 1828 comparve in una piazza di Norimberga accompagnato dal suo nome, dalle poche parole che sapeva pronunciare, dal desiderio di nutrirsi soltanto di pane e acque. Visto che la carne e gli alcolici gli provocavano terribili convulsioni. Oltre ottomila libri, 23mila articoli e alcuni film, tra cui quello firmato da Werner Herzog, non sono riusciti a stabilire una seppur traballante verità sul caso.
E se, all’improvviso, una storia simile si ripetesse? Magari complicando ancor di più lo scenario. Come immagina Catherine Lacey nel suo terzo romanzo, “A me puoi dirlo”, tradotto da Teresa Ciuffoletti per la casa editrice Sur (pagg. 221, euro 17). Un libro assai atteso, visto che la scrittrice di Tupelo, Mississippi, a poco più di trent’anni è riuscita a entrare nella prestigiosa lista decennale dei Best Young American Novelists. Soprattutto grazie al folgorante romanzo d’esordio “Nessuno scompare davvero” e alla sua seconda, ottima prova narrativa “Le risposte” (leggi anche in questo blog Arcane Storie l’intervista “Catherine Lacey: la religione? Una pericolosa illusione” del 25 marzo 2018).
Da sempre, Catherine Lacey è affascinata dai personaggi che entrano in un contesto definito, ben strutturato, per creare scompiglio. Per rivelarsi segni di contraddizione in un sistema sociale che crede di avere raggiunto un equilibrio abbastanza soddisfacente. E anche questa volta, la scrittrice di Tupelo, segnata da un’educazione religiosa decisamente asfittica, che l’ha condizionata per tutta l’adolescenza, esplora in “A me puoi dirlo” proprio un paesino della provincia che si ritrova unito da una grande sintonia spirituale.
In quel piccolo mondo così perfetto, solo in apparenza, una mattina succede qualcosa di inaspettato. Una persona giovane, dalla pelle più scura degli altri e dal sesso indefinito, viene trovata addormentata sulla panca della chiesa. Non parla, non dice niente di sé. Sembra che le sia impossibile stabilire un contatto con gli altri.
La comunità non si fa troppe domande e mette in atto subito un piano di solidarietà. A turno, diverse famiglie decidono di ospitare la persona comparsa dal nulla. Si prodigano per farla sentire a proprio agio. Ma via via che passano i giorni, non possono fare a meno di interrogarsi sulla reale identità del giovane sconosciuto. Che potrebbe essere anche una giovane sconosciuta. Visto che la misteriosa presenza, pur comprendendo perfettamente la lingua che si parla lì, si rifiuta di comunicare con chicchessia. Nonostante i variegati tentativi di superare il suo muro di silenzio.
Ognuno prova, con metodi suoi, a fare in modo di scoprire qualche dettaglio in più sul passato, sulla provenienza, magari sulle storie atroci che l’ospite deve avere vissuto. Ma non c’è niente che sembra riuscire a convincere Panca, come verrà ribattezzata dla sfuggente presenza ritrovata, appunto, sulla panca di una chiesa, a interrompere il suo ostinato mutismo. Tanto che l’iniziale disponibilità della comunità comincia a trasformarsi in insofferenza, legata al dubbio, alla preoccupazione di far convivere nella stessa casa, con i propri figli, un essere di cui non si sa niente. E che potrebbe rivelarsi, chissà, anche un potenziale delinquente.
E poi, c’è un problema in più a turbare la piccola comunità. Mancano sei giorni al Festival del Perdono. L’evento che tutti considerano come un momento di purificazione, di redenzione, dalle mille, inconfessate infrazioni della legge compiute nel corso dell’anno. Un momento di riflessione e autocritica che la collettività si è data nel segno di un cammino spirituale iniziato molto tempo prima.
Come reagirà la silenziosa presenza a quella giornata catartica, se sembra del tutto indifferente ai solleciti che la invitano a raccontare la propria storia? A condividere con gli altri i momenti più terribili del passato?
Catherine Lacey, che non esita a definire la religione “una pericolosa illusione”, inserisce Panca al centro della comunità come un ordigno a orologeria. Pronto a esplodere. Perché sarà la misteriosa figura a dover fare i conti con tutto quello che la comunità considera normale, portando a galla le contraddizioni di un credo che mal tollera il silenzio degli altri. Una fede disposta a chiudere gli occhi davanti alle proprie plateali storture.
Costruito come un costante brusio di voci, che si incontrano e scontrano, si accavallano per poi dividersi, “A me puoi dirlo” porta il lettore a interrogarsi sulla forza della massa e la fragilità del singolo. Sulla prepotenza, mascherata da gentilezza, di chi detta le regole, e la solitudine di chi a quella regole non si piega in maniera incondizionata. Ma lo spinge pure a chiedersi quanto sia corretto accogliere uno straniero per poi continuare a sottolineare le differenze che ci separano da lui. Senza ammettere che l’altro non ha niente, mentre a chi lo ospita non manca niente: casa, famiglia, amici, denaro, sogni e illusioni.
E come sempre fa nei suoi romanzi, Catherine Lacey spinge al centro del racconto una serie di personaggi che si sentono a disagio con se stessi e con la gestione della loro esistenza. E che, però, si illudono di trovare la strada giusta seguendo ciecamente le traiettorie tracciate da altri. Fino a quando, dentro la loro crisi latente, si insinuerà dirompente il dubbio. Che, in questo caso, veste i panni dell’altro. Dell’essere indefinibile. Di un’ambigua presenza in cui finiranno per rispecchiarsi le più inconfessabili ipocrisie.
<Alessandro Mezzena Lona<