Eugenia Rico ama l’Italia con tutta se stessa. Fin da quando molti anni fa, lei spagnola di Oviedo, è approdata a Roma con una borsa di studio. E ha deciso che non sarebbe più ripartita. Adesso vive a Venezia, e proprio nella città sospesa sull’acqua ha ricevuto uno dei più inaspettati e graditi omaggi dal mondo della cultura italiana: il Premio Bauer Giovani assegnato ogni anno nell’ambito del Festival Incroci di civiltà, organizzato dall’Università Ca. Foscari.
Laureata in Legge, considerata una delle voci più interessanti della letteratura contemporanea in lingua spagnola, grazie ai sette romanzi che ha pubblicato nel suo Paese natale, Eugenia Rico ha debuttato in Italia con “Gli amanti”, (in spagnolo Los amantes tristes) tradotto da Pierpaolo Marchetti per Elliot (pagg. 93, euro 13.50). Un libro denso e fulminante, una storia d’amore maledetta, un intrecciarsi di destini che pone i tre protagonisti davanti a una delle scelte più difficile e estreme che possono toccare nel corso della vita: ascoltare la ragione, oppure lasciare che sia il cuore a tracciare la via.
Tra due amici veri si inserisce all’improvviso una donna: Ofélie. Bella, tanto bella da creare subito una netta distanza tra Antonio e Jean Charles. Fino a quando quest’ultimo finisce in un manicomio per una non ben precisata decisione del prefetto di polizia. Inizia allora una corsa affannata e disperatissima per provare a tirarlo fuori da quell’inferno chimico, dove lui si sta lasciando andare alla deriva.
“Questo romanzo, in realtà, è il quinto che ho scritto. Ma il primo che ho pubblicato in Spagna, e anche in Italia – racconta Eugenia Rico -. Il problema è che, fino a un certo punto, mi divertivo a mettere assieme tante storie, che poi finivano regolarmente nel cassetto. Perché non trovavo il coraggio di proporle gli editori”.
E poi?
“Poi è successo un fatto strano, che mi ha cambiato la vita. Durante un viaggio nel Sahara mi sono presa un’infezione nel piede che si stava trasformando in cancrena. I tuareg volevano tagliare la ferita con un coltello per farla spurgare, e avevano ragione, ma io non mi fidavo. A un certo punto mi sono trovata senza soldi per gli antibiotici bloccata a Marrakesh. E per fortuna che certi amici marocchino mi hanno fatto un prestito. Altrimenti non so come sarebbe andata a finire”.
Stavamo per perdere una brava scrittrice?
“Durante il viaggio in treno, con la febbre, e anche in ospedale, dopo l’operazione che mi ha salvata dall’amputazione del piede, ho capito che non potevo lasciar morire i miei personaggi dentro un cassetto. Dovevo mandare i romanzi a qualche editore”.
Ha iniziato a inventare storie molto presto?
“Ho iniziato a scrivere da bambina. Piccolissima ho vinto un concorso scolastico sponsorizzato da un famoso marchio di bibite. Ricordo che gli altri ragazzini mi volevano picchiare, perché il premio consisteva in un bel mucchio di cioccolatini. Poi a 11 anni ho scritto un’altra storia. L’insegnante, senza dirmi niente, l’ha portata alla redazione di un giornale che l’ha pubblicato. Poi, anche se non ho mai smesso di ideare romanzi, per un po’ mi sono impegnata negli studi da avvocato”.
È stato facile pubblicare il primo libro?
“Ho messo il manoscritto in 17 buste e l’ho spedito ad altrettanti editori. Mi hanno risposto in tre. Quello che mi convinceva di più è Planeta, che poi ha pubblicato ‘Los amantes tristes’. Quella, per me, è stata la prima grande sorpresa”.
E la seconda?
“Non ho dubbi: il Premio Bauer Giovani che mi è stato assegnato a Incroci di civiltà. Anche perché il riconoscimento più importante è andato a un grandissimo scrittore come Ian McEwan. E poi, non sapevo assolutamente che la giuria avesse preso in considerazione il mio romanzo. Ecco, posso dire che quando mi hanno dato la notizia ho provato una grandissima emozione”.
Da dove arriva la storia degli “Amanti”?
“In realtà nasce da una storia vera, che mi hanno raccontato alla Festa della musica di Parigi. C’era un tipo che abitava in una casa con l’affitto bloccato, molto basso, ma il padrone voleva cacciarlo per guadagnare più soldi. E siccome non trovava il modo per convincerlo, ha deciso di farlo passare per pazzo. Così ha chiamato i vigili del fuoco, poi il servizio sanitario, e l’ha fatto portare in manicomio dopo che il prefetto di polizia ha emesso un’ordinanza. Mi è sembrata una vicenda così pazzesca che ho deciso di raccontarla, a modo mio”.
Chi era stato a raccontargliela?
“Un amico che stava facendo l’impossibile per far uscire questo poveretto dal manicomio. Così ho cominciato a scrivere, dopo essere andata a leggere l’ordinanza di internamento. Il problema è che, a un certo punto, i personaggio si sono messi a decidere da soli quello che volevano fare. Per esempio, all’inizio Ofélie l’avevo immaginata come una figura secondaria. Invece è cresciuta moltissimo, fino a diventare personaggio di primo piano”.
Sarebbe facile dire “Ofélie c’est moi”…
“Certo, perché è una donna. Ma, al contrario, io mi riconosco più in Antonio e Jean Charles. Anche se devo ammettere che ho preso a prestito parecchi tratti del carattere di Ofélie da donne che ho conosciuto veramente”.
Antonio è il classico uomo che si fa condurre dalle vicende della vita?
“Antonio è una brava persona, non un eroe. Assomiglia a molti di noi. Fa il professore, vuole suonare il violino, si innamora di Ofélie ma non si decide a lasciarla nemmeno quando scopre il suo segreto. Il problema è che lui ama per davvero, appassionatamente. E questo spesso si rivela molto pericoloso. Del resto, dopo aver letto il romanzo, un grande scrittore spagnolo mi ha fatto un grande complimento, dicendo che racconto una storia in tutto uguale alla vita”.
Come è arrivata in Italia?
“Ho scelto di vivere in questo Paese perché lo amo. Sono arrivata prima a Roma con una borsa di studio dell’Accademia di Spagna. Poi mi sono trasferita a Venezia. Ho sempre pensato che questo sia il posto più bello del mondo. Basta guardarsi in giro, la bellezza è dappertutto. Anche adesso, che non stiamo vivendo un periodo favoloso come il Rinascimento. L’unica cosa che un po’ mi dispiace è che nessun uomo italiano si è innamorato di me”.
La bellezza può cambiare la vita?
“Il senso della vita sta nella bellezza. E l’Italia incarna il concetto stesso di bellezza”.
Tra i suoi fan c’è un grande scrittore come Luis Sepúlveda…
“Non lo conoscevo, ma lui dopo aver letto il mio romanzo ‘Aunque seamos malditas’ ha voluto invitarmi al Festival di Gijón, organizzato da lui. Ed è stato molto generoso perché mi ha definita una delle voci più originali della narrativa spagnola”.
Mai pensato di scrivere in italiano?
“Sarebbe una bella sfida. Come lo è stata per Joseph Conrad, per Samuel Beckett. Però non me la sento, troppo difficile. In più amo il mio traduttore Pierpaolo Marchetti perché ha fatto un ottimo lavoro. E poi c’è un altro fatto ancora”.
Quale?
“Lo scrittore è sempre uno straniero, dovunque sia la sua casa. Il che significa che non deve dare mai niente per scontato, anche se vive in un Paese che ama profondamente come l’Italia. Per me, uno degli esempi più limpidi e ammirevoli di straniero, letterariamente parlando, nella sua terra è Claudio Magris. Un autore che adoro e che spero di conoscere presto”.
<Alessandro Mezzena Lona